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"Immigrati, i numeri e la realtà", di Giovanna Zincone

Radiografando l’immigrazione con occhi aperti al mondo, il Dossier Statistico Caritas anche quest’anno ci parla dell’Italia. Rende evidenti emergenze del presente, pecche radicate, problemi strutturali. Secondo le stime Caritas, un po’ più generose come sempre di quelle Istat, gli stranieri nel nostro paese sono 5 milioni, una cifra appena più alta dell’anno precedente. La crisi, quindi, ha diminuito solo di poco il tasso d’incremento degli ingressi, ma non ha ancora intaccato il totale dei presenti. Siamo ormai sopra alla media europea, e la rapidità con cui il fenomeno si è sviluppato specie nell’ultimo decennio ha generato contraccolpi. Stando a vari sondaggi, per gli italiani gli immigrati sono troppi. In questa opinione si profilano due pecche nazionali: la riluttanza a fare i conti con la realtà e l’incongruenza dei giudizi.
Questi 5 milioni sono troppi rispetto a cosa? Non rispetto alle esigenze della nostra economia: gli immigrati sono circa l’8% della popolazione, ma il 10% della forza lavoro. Si tratta di una componente poco concorrenziale, collocata in larga misura nelle fasce basse dell’occupazione e del reddito: l’83% dei comunitari e Il 90% dei non comunitari sono operai. Sempre secondo i sondaggi, gli italiani concordano sul fatto che i lavoratori stranieri ricoprano mansioni lasciate scoperte dagli autoctoni. Temono semmai che consumino più risorse pubbliche di quante ne producano, ma è vero il contrario, come conferma anche il rapporto Caritas.
Il largo numero di immigrati alla base della piramide lavorativa non dipende solo dal fatto che molti italiani rifiutano certe mansioni, ma anche dal fatto che quella base è molto, troppo e crescentemente larga. La nostra economia attrae dall’estero soprattutto lavoratori non specializzati ed esporta giovani, anche specializzati, perché si colloca in settori arretrati nella divisione internazionale del lavoro. La nostra è un’economia seduta. È un sistema che scoraggia i giovani cervelli: il 62% per cento dei ricercatori italiani emigrati in Gran Bretagna ha meno di 35 anni, e lì solo il 9% di nostri accademici ha più di 50 anni. Che escano più persone qualificate di quante ne arrivino è inevitabile. Dubito che la Carta Blu dell’Ue, introdotta anche in Italia per favorire l’immigrazione di stranieri qualificati, rovesci il senso di marcia delle competenze in entrata e in uscita dal nostro paese. Abbiamo infatti un altro magnete di lavoro purtroppo spesso poco qualificato: un welfare marcatamente familiare che impiega numerose addette nelle funzioni di cura domestiche, anche e molto degli anziani. Questa strategia di delega alle famiglie può essere migliorata, ma evitare di internare gli anziani non autosufficienti è una buona cosa. Meno buono è che il welfare domestico costituisca un ricettacolo di lavoro nero. Anche la regolarizzazione del 2012 è stata utilizzata soprattutto da colf e badanti. Irregolarità e lavoro nero sono più facili da praticare in casa, ma lo sono anche in un tessuto di piccole imprese che, per quanto ricco di creatività ed esemplari successi, costituisce un altro limite e una fragilità del sistema Italia. In un contesto culturale che non ama le regole, le imprese non fanno eccezione. Nel 2011 il 61% per cento delle imprese controllate risulta non in regola, quindi talora più a rischio di incidenti sul lavoro. Per quanto in calo rispetto al passato, gli incidenti restano più alti della media europea e, per gli immigrati, addirittura in aumento (dal 15% al 15,9%).
I «troppi» immigrati pagano quindi prezzi piuttosto alti: si collocano nella fascia più bassa dei redditi e delle occupazioni, sono più esposti a trattamenti irregolari e a rischi di incidenti. La crisi ha prodotto un aumento della loro disoccupazione che è decisamente più alta (12,1%) di quella dei nati in Italia. D’altra parte, il lavoro immigrato resta fondamentale per i datori di lavoro. Mentre gli occupati nati in Italia sono diminuiti, quelli nati all’estero sono aumentati di 170 mila unità. E non solo perché sono più flessibili: è alta infatti la loro quota tra gli assunti a tempo indeterminato. Gli immigrati costituiscono quindi un polmone sociale, ma è un polmone a rischio. Per loro, come per tutti i lavoratori, molto dipende dalla tenuta della nostra economia e da norme che aiutino ad affrontare la turbolenza in corso. È stato quindi opportuno rialzare il tempo di disoccupazione tollerata da 6 a 12 mesi, ma ancora meglio sarebbe lasciarlo alla valutazione dei singoli casi.
Il rapporto Caritas fornisce numeri, ma nella sua introduzione ci ricorda che gli immigrati non sono numeri, sono individui e famiglie degni di rispetto. Nei loro confronti si evidenzia, invece, un altro grave vizio nazionale che irrompe nei rapporti sociali e politici: la mancanza di rispetto, l’uso di un linguaggio volgare. Anche nel Dossier Caritas emerge dunque un’Italia che – come ha affermato Monti – non necessita di interventi moderati, ma di riforme radicali. D’altra parte, il nostro paese ha un grande bisogno di moderazione nei toni, di quelle buone maniere pubbliche che Monti cerca di diffondere. Auguriamoci che questa non si riveli la più difficile delle sue riforme.
La Stampa 31.10.12