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“Il Pd ponte dell’alternativa”, di Michele Prospero

Circola una caricaturale interpretazione del voto: le armate di Grillo sono alle porte e i partiti responsabili devono allearsi in nome dell’emergenza. Ma commetterebbe un grossolano errore di analisi il Pd se davvero partisse nella riflessione postulando la priorità della questione Grillo. E andrebbe di sicuro incontro alla sconfitta se ritenesse di muoversi lungo due opzioni speculari: promuovere una unione sacra di tutti i partiti «normali» contro la barbarie o assecondare una rapida adozione dei canoni dell’antipolitica rottamatrice come chiave magica per sgonfiare dall’interno la protesta raccolta adesso da Grillo.
Il Pd non deve costruire l’alternativa al comico. Deve piuttosto confermare la sua centralità sistemica continuando ad essere il soggetto di ogni alternativa credibile alle destre e ai populismi. Questa è la funzione cruciale del Pd, la ragione del suo plusvalore politico, che esce confermata dalle urne. Quale è infatti il tratto di sistema del voto siciliano? La tenuta del Pd, come cardine di una alternativa, anche se maturata fra le macerie.
Quando, dinanzi al fallimento del governo Berlusconi, fu chiamato Monti a Palazzo Chigi era evidente che il gioco mutava. La sospensione emergenziale dell’alternanza immetteva la possibilità di una crisi di sistema che avrebbe contestato la legittimità di tutti gli attori, anche del Pd. Non c’era più il problema di sostituire un governo disastroso e quindi per il Pd si interrompeva la fase espansiva che lo aveva visto mietere successi alle amministrative e ai referendum. Gli rimaneva, come obiettivo massimo perseguibile nel mutato contesto storico, solo quello di resistere bene senza smarrire le truppe disorientate dinanzi ad una maggioranza votata spesso all’immobilismo. Chi si meraviglia che dal crollo della destra non raccolga oceanici frutti il Pd (che peraltro è accreditato del 30 per cento) non ha compreso proprio nulla. Che forse nel ’92 il suicidio del pentapartito andò a favore del Pds? In una crisi di sistema non avviene mai così: tutto si rimescola e non si ha più un mero travaso di voti dal go verno all’opposizione.
Non uscire travolti dalle macerie, e anzi confermarsi nel ruolo di attore centrale da cui nessun governo potrà pre- scindere, è per il Pd un motivo di forza tutt’altro che irrilevante. La sinistra radicale, che ha trascurato questo ruolo di cerniera del Pd, pensando di approfitare di una virata verso il centro, ha subito una sconvolgente quanto prevedibile mazzata. Anche il centro, che mostra segni di ravvedimento riaprendo all’intesa con i progressisti, farebbe bene ad abbandonare il disco rotto del Monti bis. Come non cogliere che la proroga del governo tecnico rappresenterebbe la fine di ogni tenuta dei partiti? Se i partiti non riconquistano la competenza a governare anche l’emergenza, ai tecnici andrà l’esecutivo e ai comici la rappresentanza della protesta. Nessun sistema di partito, perdendo il potere a lungo, può illudersi di ripresentarsi un giorno a bocce ferme a incassare il premio speciale per aver ceduto la sovranità ad altri attori. Non è mica vero che il vuoto prolungato della politica giovi alla politica. Oltre un tempo circoscritto alla fase più acuta dell’emergenza, la vacanza dei partiti produce solo mostri.
Un anno fa, prima della strana maggioranza e degli scandali, Grillo era stimato al 3 per cento e ora vola sopra il 20 nelle intenzioni di voto. Se non si esce dalla situazione di emergenza, la destrutturazione diventa strutturale e il sabotaggio diviene normale. Non è un caso che i media e i poteri che più hanno sparato contro la casta ora evochino una santa alleanza per fermare l’anomalo comico e arrestare una sindrome greca. Non tocca al Pd sgonfiare il grillismo con il dubbio grimaldello delle grandi ammucchiate. L’antipolitica non si sterilizza senza una ricambio di classi dirigenti e un ritorno visibile al conflitto tra destra e sinistra, lavoro e profitti. L’incognita più grossa non è Grillo, con la sua piccola dote di un nuovo ceto politico ormai entrato nel sistema. La sorpresa può venire dal disarmato (per ora) mondo della destra populista che va sempre indotto a tenersi a debita distanza dai moderati.
Il Pd commetterebbe un grave errore di prospettiva se pensasse di modulare la sua offerta strategica aderendo al chiacchiericcio delle unioni sacre contro i populismi o si rifugiasse nel terreno esplosivo dell’antipolitica. Lo fece il Pds nel 92-94 parlando di «una guerra di liberazione dalla partitocrazia». Non andò bene, però, servì solo ad evocare il cavaliere nero. C’è sempre un attore più credibile, rispetto a un partito normale, nel cavalcare l’onda anomala dell’antipolitica, che perciò non va mai accarezzata. Ti travolge, e inventa d’un colpo nuovi attori vincenti appena ti illudi di poterla domare. Proprio qui potrebbe sorgere un nuovo leader federatore capace di mettere insieme truppe con capitani che al momento sembrano inconciliabili. Perciò la proposta di un ponte tra progressisti e settori moderati (mancante nel 92-94) è il segno di una maturità storico-politica del Pd nel governare le incognite di una transizione. Lo spazio politico va riempito con il coraggio dell’innovazione e con un forte legame con il disagio sociale crescente di un Paese smarrito.
L’Unità 01.11.12