attualità, politica italiana

"Le tre B che uccisero Tonino", di Mario Lavia

La caduta di Berlusconi. Il bacio della morte di Beppe (Grillo). La rottura di Bersani. Sono tre B a condannare Antonio Di Pietro, lo stritolano, ne decretano la fine politica. Tutte B decisive, ognuna di loro era indispensabile: se Berlusconi non si fosse suicidato, o se Grillo lo avesse arruolato, o se Bersani lo avesse salvato, probabilmente oggi Tonino sarebbe in forze. Ma contro la tempesta perfetta delle tre B nulla può fare. Si squaglia, Idv. Donadi guarda al Pd, Pancho Pardi strepita, Leoluca Orlando se ne sta sulla riva del fiume: rompete le righe. E così, sta per cadere uno dei simboli – per certi versi “il” simbolo – della Seconda repubblica.
Seconda repubblica nata sulle ceneri della Prima che proprio Tonino contribuì in modo determinante a sbriciolare nell’aula del processo Enimont, avviluppato nella toga nera davanti al Craxi arrogante e inefficace, a Forlani con la bava alla bocca, a Carletto Sama smemorato, e a Giorgio La Malfa, Martelli, Altissimo (c’era pure Cariglia), poi Cagliari, Gardini, Citaristi, e il compagno G torchiato senza esito nelle stanze dei pm. Cade oggi, Di Pietro, specularmente al Grande Erede della Prima repubblica, il costruttore-tycoon Silvio Berlusconi, di cui tutto si può dire tranne che non abbia il fiuto dei talent-scout, tant’è vero che, vinte le elezioni del ’94 cercò proprio Tonino – tramite l’avvocato Previti, i tre si videro nello studio di quest’ultimo – ricevendone un rifiuto: non era ancora il momento della discesa in politica.
Questione di mesi. Necessari per immagazzinare nei polmoni quell’enorme dose di antiberlusconismo che tornò buona per annusare l’Ulivo, prontamente ricambiato da D’Alema con l’offerta del Mugello, entrare nel governo – ministro dei lavori pubblici pirotecnico e fuori parte – e poi cominciare a dare fastidio un po’ a tutti, guastatore arruolato nell’Asinello prima di rompere anche con questo. E sarebbe stato un perfetto girotondino senonché anche lì c’era troppa discussione, e quindi passetto dopo passetto, fra una telecamera e l’altra, e anche ospite au contraire di aule giudiziarie (lui accusato e non più accusatore), sempre con congiuntivi bypassati e proverbi di ritorno e già avendo esperito epurazioni e intolleranza al dissenso, su su fino all’invenzione di un partito personale e di plastica, Italia dei valori.
Quando l’antiberlusconismo diventa ormai la cifra dominante, anzi l’unica, del Nostro, la vera tigre in un motore irrorato da pensieri e parole e improperi, antiberlusconismo tanto forte che gli vale ancor oggi l’encomio, pur sulla lapide politica, di Beppe Grillo, suo compagnone di fatto e erede di diritto, «lui soltanto in parlamento ha combattuto il berlusconismo, lo ha fatto con armi spuntate, con una truppa abborracciata tenuta insieme unicamente dalla sua testardaggine e caparbietà»: Beppe ieri dixit. Ed è appuntandogli questa postuma medaglia al petto che il comico di Genova lo ha candidato ufficialmente a presidente della repubblica, obiettivo assurdo e per questo molto grillino, classico ponte d’oro a chi lascia scena e voti. Eccola, la seconda B: Beppe che srotola il sudario sulle spalle appesantite di un frastornato Tonino, a cui gira la testa per una trasmissione televisiva, guarda tu la nemesi, finire alle corde e pestato come Foreman con Clay proprio sulla “sua” questione morale: non bastassero le pessime compagnie, da Scilipoti a Razzi a Maruccio, ci si mettono pure le proprietà, le case, le stalle.
Ma poi c’è un’altra B, quella del cognome del segretario del Pd, la B più politica, meno simbolica della prima e della seconda– Berlusconi e Beppe Grillo – ma a leggere bene la più pesante, risolutiva, definitiva. Più politica, perché Bersani avrebbe potuto gettargli una ciambella di salvataggio e lo ha invece sospinto fuori dalla scialuppa progressista che è in testa in tutti i sondaggi, avrebbe potuto mettere fra parentesi gli attacchi a Napolitano e certe intemerate contro Pd e centrosinistra, avrebbe potuto fare il magnanimo, e bonariamente dare seguito alla cortesia di Vasto (perché adesso è chiaro che andò a quella festa in Abruzzo più per fare una chiacchierata che per stipulare un patto politico come si credette e venne fatto credere, in fondo – lo capiamo adesso – una foto è una foto e basta).
Gli ultimi mesi hanno sancito la non-spendibilità di Di Pietro sul piano del governo e tanto meno su quello della prospettiva valoriale e qui non è una questione di congiuntivi ma di elementare distinzione fra cose serie e propaganda arruffona. E diciamocelo chiaramente perché fa bene al cuore: se Di Pietro cade è certamente per l’esaurimento di quella spinta propulsiva che gli veniva dall’antagonismo col Cavaliere, ed è perché Beppe gli prosciuga l’acqua in cui nuotare: ma è anche per mano (cioè per merito) di Pier Luigi Bersani che aveva visto giusto.
da Europa Quotidiano 02.11.12