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"Ma con Barack c’è solo mezza America", di Gianni Riotta

Alla vigilia del voto di martedì 6 novembre, la sfida per la Casa Bianca tra Barack Obama e Mitt Romney è dove è rimasta per l’intera campagna elettorale, poco avanti il Presidente democratico, soprattutto negli Stati cruciali, vedi Ohio, un’incollatura dietro l’ex governatore repubblicano. Sarebbe però un errore concludere dunque che «nulla è cambiato». Barack Obama, eletto da una nuova generazione nel 2008, campione carismatico, laureato in fretta col Nobel per la Pace, elogiato in libri e opere d’arte, anche vincendo uscirà dalla gara ridimensionato, «normale Presidente» a rischio bocciatura come Carter ’80 e Bush padre ’92. Ha sì controllato la crisi e lanciato la riforma sanitaria, ma senza ispirare unità o forzare alle intese i repubblicani al Congresso.
Romney ha cancellato l’immagine di estremista preda dei Tea Party che la poderosa macchina democratica voleva affibbiargli. Governatore del progressista Massachusetts ha approvato una riforma sanitaria copia di quella di Obama, anatema a destra, e in politica estera offre solo una versione «effervescente» delle idee del Presidente. E’ forse il suo piano fiscale, meno tasse, meno spesa pubblica ma più spesa militare, a lasciare perplessi gli elettori moderati, specie se non abbienti, donne, emigranti.
L’eclisse di Obama, da profeta a politico incapace di riscaldare il cuore dell’americano medio, Joe Six Pack, preoccupato dal salario medio di 50.000 dollari l’anno che scende per i nuovi assunti a 30.000, e la rimonta di Romney da capitalista duro dei licenziamenti a centrista, non sembrano però ribaltare ancora la scena. I sondaggi di Nat Silver, il sito realclearpolitics, assegnano 7 possibilità su 10 ai democratici. Il paradosso si spiega analizzando i dati sulla disoccupazione, diffusi ieri, 171.000 nuovi posti, tasso che scende a 7,9%, un modesto 0,1 sotto la cifra di 8% che, per tradizione, elimina i Presidenti. L’economista James Marple, in una sintesi che dovrebbe far riflettere in Europa, dice «Lasciate perdere i profeti di sventura. L’economia Usa dimostra un’incredibile grinta davanti a guai seri. Malgrado restino dubbi acuti sul destino dell’abisso fiscale e con l’economia globale in panne, l’America genera lavoro a ritmi rispettabili».
Se martedì anche Obama si unirà ai 171.000 e terrà il posto di lavoro, si dovrà a questi numeri e a niente altro. Il carisma fu sigla 2008, il tasso di disoccupazione a 7,9, lo stimolo economico della Federal Reserve di Bernanke e il piano di salvataggio dell’auto, le sigle 2012. Guardate lo Stato dell’Ohio, che da mezzo secolo vota il Presidente vincente. Tutto quello che so dell’America, tutta la tradizionale analisi politica di maestri come David Broder a Bill Schneider, lascerebbero ipotizzare un Presidente in difficoltà tra i riottosi elettori di uno degli ultimi laboratori di manifattura Made in Usa. Invece Obama in testa, Romney arrancante: perché? Perché, come il Michigan vive di General Motors, Ford e Chrysler, l’Ohio vive di indotto auto. Il piano di Obama significa disoccupazione «solo» al 7% e difesa di 150.000 posti «auto motive». Nel 1990 gli operai erano in Ohio 1.100.000, oggi sono rimasti in 657.000. Molti ascoltano volentieri gli appelli di Romney e del suo candidato vicepresidente Paul Ryan a ridurre tasse e spesa, lanciando start up, li condividono magari. Ma quando guardano a mutuo, salario che non cresce, figli da mandare al college, pensano che il grigio status quo di Obama e Bernanke – per ora – sia rassicurante. Giudizi da metalmeccanico dell’Ohio al coffee shop, condivisi però dal premio Nobel per l’economia del Mit Peter Diamond e dalla firma del «Financial Times» Martin Wolf con lo slogan geniale «Negli Stati Uniti la disoccupazione è una “crisi”, il debito pubblico un “problema””. Obama ha parlato, sia pur con tono accademico, di “emergenza lavoro”; Romney, non estremista e rassicurante in tv, s’è però concentrato sul “problema debito”, senza chiarire come tagli alle tasse, modesti tagli alla spesa sociale e robusto incremento alla spesa militare possano risolverlo. Secondo l’antico proverbio di buon senso yankee “First things first”, un guaio alla volta, gli elettori, soprattutto indipendenti e moderati, pensano oggi alla “crisi lavoro”, domani al “problema debito”».
La campagna, costata la fantastica cifra di sei miliardi di dollari (4,6 miliardi di euro), è in queste ultime ore affidata agli esperti di statistiche e Big Data, che – la cosa forse divertirà i lettori – applicano alla politica i metodi di calcolo informatico creati per il baseball, come nel film «L’arte di vincere». Nate Silver, blogger dell’austero «New York Times», s’è fatto le ossa sui risultati delle partite al «Baseball Prospectus». Potete accecarvi per ore su curve e diagrammi, il risultato, nazionale o stato per stato, cambia poco, Obama ha qualcosa in più di 3 chance su 4 di vincere, l’ultima va a Romney. I politologi scettici, Brooks, Scarborough, Podhoretz, ridono: «Se vince Romney, quelli alla Nat Silver tornano al baseball». Sciocchezze, «probabilità» non è «certezza», ma voi non prendereste mai un aereo che ha una chance su 4 di cadere, mentre vi precipitereste a comprare biglietti di una lotteria con una chance su 4 di vincere.
Queste dunque le probabilità estreme. Le certezze, per Obama o per Romney, sono i guai a venire: lavoro da creare; innovazione e produttività, migliori che in Europa, ma da sostenere; il «problema» debito pubblico che si farà «crisi» se non affrontato; un buco nella domanda interna, che malgrado consumatori «cicala», resta vertiginoso; la disuguaglianza sociale che non mobilita intorno a Occupy Wall Street, ma vede giovani e ceto medio perdere potere d’acquisto e status sociale; Washington politica polarizzata e incapace di negoziare accordi tra Casa Bianca e Congresso. Alla fine il piano Obama-Bernanke sembra più realista e meno ideologico dell’appello al mercato di Romney: pesa sull’elettorato la consapevolezza che nessun repubblicano vota per un aumento delle tasse dal 1990, una generazione intera. Ma, come ha scritto il vecchio Richard Cohen sul «Washington Post», «chiunque si fosse illuso di riconoscere in Obama il nuovo Bob Kennedy ha fatto in tempo a ricredersi». Il paragone è ingiusto per il giovane Presidente, l’America è ormai divisa, mancano luoghi di vita sociale comuni, come erano una volta scuole, esercito di leva, campi da gioco, quartieri popolari. Cittadini dell’economia digitale e Cittadini della vecchia economia non si incontrano neppure più, se non per strada. Obama aveva fatto sperare non in un abbraccio, ma almeno, nel dialogo fra le Due Americhe. Ha fallito. Sarà forse rieletto, ma da una sola metà, la democratica. Quest’anno non si sogna, si contano dollari, lavoro, «bills», bollette da saldare ogni fine di mese.
La Stampa 03.11.12