attualità, politica italiana

"L'alternativa Grillo catastrofe annunciata", di Eugenio Scalfari

Beppe Grillo e la televisione: questo è il vero fenomeno che va studiato con attenzione perché è da qui che il Movimento 5 Stelle diventa un problema politico del quale le elezioni siciliane hanno dato il primo segnale. La sera di giovedì scorso Michele Santoro ha dato inizio al suo “Servizio Pubblico” trasmettendo l’attraversamento dello Stretto di Messina del comico leader del populismo e dell’antipolitica dopo due ore di nuoto. Il “Servizio Pubblico” ha dedicato alla nuotata e al comizio effettuato appena toccata terra parecchi minuti e altrettanti e forse più al comizio successivo infarcito di parolacce (“cazzo”, “coglioni” e “vaffa” punteggiavano quasi ogni frase).
L’ascolto ha avuto il 10,37 di share pari a 2 milioni e quattrocentomila spettatori; poi lo share è salito al 18 per cento restando tuttavia al terzo posto dopo Canale 5 e RaiUno. Non è moltissimo ma sono comunque cifre significative.
Il fenomeno consiste nel fatto che Grillo non vuole a nessun patto andare in tv e rimbrotta, anzi scomunica, i pochi tra i suoi seguaci che trasgrediscono a quell’ordine.
Non vuole andare in tv perché sarebbe costretto a confrontarsi e a rispondere a domande e non vuole. Vuole soltanto monologare e se un giornalista lo insegue lo copre di contumelie. Quindi fugge dalla televisione ma le televisioni lo inseguono, lo riprendono, lo trasmettono. La Rete è gremita di video sul Grillo comiziante e monologante registrando milioni e milioni di contatti.
Conclusione: Beppe Grillo gode d’una posizione mediatica incomparabilmente superiore a quella di qualunque altro leader politico di oggi e di ieri. Una posizione che non gli costa nulla, neppure un centesimo, e gli garantisce un ascolto che si ripete fino al prossimo comizio del quale sarà lui a decidere il giorno, l’ora e il luogo. In Sicilia il suo candidato ha avuto il 18 per cento dei voti e il suo Movimento il 14. I sondaggi successivi al voto siciliano lo collocano attorno al 22 per cento. Quale sia il programma del M5S resta un mistero salvo che vuole mandare tutti i politici di qualunque partito a casa o meglio ancora in galera perché «cazzo, hanno rubato tutti, sono tutti ladri». Monti «è un rompicoglioni che affama il popolo ». E «Napolitano gli tiene bordone». Sul suo “blog” uno dei suoi seguaci ha già costruito la futura architettura politica: al Quirinale Di Pietro, capo del governo e ministro dell’Economia Beppe in persona, De Magistris all’Interno,Ingroia alla Giustizia, Saviano all’Istruzione. Quest’ultimo nome sarebbe una buona idea ma penso che il nostro amico non accetterebbe quella compagnia. Per gli altri c’è da rabbrividire e chi può farebbe bene ad espatriare.
Resta da capire perché mai alcune emittenti televisive si siano trasformate in amplificatori di questo populismo eversivo. Resta la domanda: perché lo fanno?
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La risposta l’ha data una persona che ha un suo ruolo nella cultura italiana anche se ha sempre dato prova di notevole bizzarria (uso un eufemismo) intellettuale: Paolo Flores d’Arcais in un articolo sul Fatto quotidiano di qualche giorno fa intitolato “Matteo Renzi è pessimo ma io lo voterò” racconta le sue intenzioni delle prossime settimane. Nella prima metà dell’articolo dimostra, citando fatti, dichiarazioni e testi, perché Renzi a suo giudizio è quanto di peggio e di più lontano da una sinistra radicale e riformista.
Fornita questa dimostrazione Flores dice che proprio questa è la ragione per cui darà il suo voto nelle primarie del prossimo 25 novembre a Matteo Renzi: perché se Renzi vincerà il Pd si sfascerà e questo è l’obiettivo desiderato da Flores,il quale alle elezioni (così prosegue il suo articolo) voterà per Grillo. Ma perché? Perché Grillo sfascerà tutto e manderà tutti a casa o in galera, da Napolitano a Bersani ad Alfano a Casini, da Berlusconi a D’Alema a Bossi, fino a Monti, Passera, Fornero, Montezemolo… insomma tutti. La palingenesi? Esattamente, la palingenesi. E poi? Poi verrà finalmente il partito d’azione, quello vagheggiato dai fratelli Rosselli e da pochi altri. Verrà e sarà un partito di massa. Guidato da lui? Questo Flores non lo dice. E con chi? Ma naturalmente con Travaglio, con Santoro e con tanti altri che hanno in testa disegni così ardimentosi.
A me sembrano alquanto disturbati o bizzarri che dir si voglia, altro non dico.
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Resta ancora in piedi il problema di Mario Monti e della sua cosiddetta agenda. Le Cancellerie europee e Obama (con un fervido “in bocca al lupo” per lui) lo vorrebbero ancora alla guida del futuro governo, ma la volontà degli elettori italiani non può esser condizionata da governi stranieri sia pure strettamente a noi alleati.
Sulla sua credibilità l’attuale classe dirigente è interamente d’accordo, ma sulla sua agenda ci sono molte riserve. Quanto a Grillo la sua opposizione a Monti è totale.
Faccio in proposito le seguenti riflessioni.
1. La credibilità di Monti è strettamente legata alla sua agenda, in parte già attuata in parte non ancora. Se il futuro governo dovesse smantellare la politica economica di Monti la credibilità del-l’Italia crollerebbe con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Un esempio per tutti: se futuri investimenti dovranno essere finanziati con un deficit di bilancio e quindi con un ulteriore aumento del debito pubblico, i mercati porterebbero lo
spread ad altezze vertiginose con effetti devastanti sul valore del nostro debito, sulla solidità del nostro sistema bancario e sui tassi d’interesse. 2. Il fallimento della Grecia può essere sopportato sia pure con molte difficoltà dall’Europa ma l’eventuale
default dell’Italia no, perché porterebbe con sé il fallimento dell’intera Unione. Quindi metterebbe in moto un vero e proprio commissariamento del nostro Paese o la nascita di un euro a doppia velocità nel quale noi saremmo relegati nel girone di serie B. Un disastro di proporzioni enormi, come o peggio d’una guerra perduta.
3. Lo Stato italiano ha assunto una fitta rete di impegni con l’Unione europea e li ha recepiti nella nostra Costituzione. Il mancato rispetto di quegli impegni sconvolgerebbe dunque non solo l’economia ma anche il nostro assetto giuridico e costituzionale.
Ce n’è abbastanza per concludere: in gioco non c’è Monti ma l’Italia.
Esistono ovviamente margini di discrezionalità per accelerare il bilancio economico e l’equità sociale, ma il solo modo per renderli compatibili con la situazione esistente è di operare sulla crescita della produttività, su una ridistribuzione importante del reddito e della vendita di un parte del patrimonio pubblico. Non vedo altre vie per il semplice fatto che non esistono.
Occorre però che il futuro governo abbia il suo asse nel Centro e nella Sinistra democratica. Si chiama appunto centro sinistra, che unisca in unico disegno riformisti e moderati liberali. A Casini riesce ancora difficile congiungere la parola liberale con quella di moderato, ma bisogna che lo faccia intendendo per liberali non quelli di Oscar Giannino ma i
liberal.
Ho sentito pochi giorni fa che Vendola dichiara come punto di riferimento per lui la politica del Roosevelt del 1933.
Se questo è vero, il punto di riferimento italiano sarebbe Ugo La Malfa e quello francese Mendés France. Se così stanno le cose Vendola entri nel Pd, quello che nacque cinque anni fa al Lingotto di Torino e che Bersani attualmente rappresenta: un partito che, nel rispetto degli impegni europei, vuole costruire un Paese più produttivo, più equo e che abbia il lavoro come sua prima priorità.
L’alternativa, se questo disegno fosse sconfitto, è chiara: ritorno alla lira, discesa del reddito reale a livelli ancora più bassi, disoccupazione endemica, mafie e lobby onnipotenti, democrazia puramente nominale. La scelta la farà il popolo sovrano e speriamo sia quella giusta.
La Repubblica 04.11.12