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"Speriamo di non finire come gli Usa", di Mario Deaglio

Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Mitt Romney, ha affermato, un paio di giorni addietro, che il suo Paese rischia di finire come l’Italia. Gli italiani potrebbero replicare che sperano di non finire come gli Stati Uniti: l’emergenza dell’uragano Sandy – per quanto correttamente gestita, a differenza di quella dell’uragano Katrina del 2005 – ha posto in luce una realtà di infrastrutture pubbliche deboli al punto che il maggior centro finanziario del mondo ha dovuto chiudere per due giorni, quasi quanto per l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001.
Pur spendendo per la sanità, in rapporto al prodotto interno lordo, circa il doppio di quanto spende l’Italia, gli Stati Uniti presentano indicatori sanitari nettamente peggiori: la speranza di vita alla nascita è di 78 anni contro gli 81 dell’Italia e il numero delle donne morte di parto è di 21 ogni centomila nati contro 4 dell’Italia. Se poi passiamo all’economia, scopriamo che il deficit pubblico degli Stati Uniti è pari circa l’8 per cento del prodotto interno lordo, quello dell’Italia a circa il 3 per cento.
Naturalmente l’America di Obama/Romney può vantare iniziativa e innovazione, un mercato finanziario agile e una moneta rispettata, un’eccellenza tecnologica in molti settori, una forza militare senza rivali. Che a vincere sia Romney oppure Obama, però, le debolezze strutturali, sovente trascurate, finiranno per pesare e renderanno molto faticosa la vita del prossimo inquilino della Casa Bianca. Se poi, come è ben possibile, il partito del Presidente non avrà il controllo del Congresso, per l’America si porrà, come per diversi Paesi europei, un problema di governabilità reso più complicato dalla crisi.
Contrariamente a quanto può far credere una lettura ottimistica dei dati, gli Stati Uniti non sono ancora fuori dalla crisi. La cura nella quale gli americani ostinatamente persistono, ossia la «fabbricazione» di nuova liquidità da parte della banca centrale, riesce a tenere a galla l’economia ma non a farla veramente ripartire. Le vendite di autoveicoli, tanto per fare un esempio, sono in ripresa ma ancora lontane dalle cifre degli anni dei record. Gli investimenti sono del 15 per cento sotto i livelli precedenti la crisi (quelli in abitazioni risultano inferiori di oltre metà ai massimi del 2005). Il prodotto lordo è cresciuto ma meno velocemente della popolazione – per cui il potere d’acquisto medio degli americani nel 2011 è risultato ancora inferiore a quello del 2007 – e più velocemente dell’occupazione. Per questo il numero dei disoccupati scende soprattutto perché molti americani scoraggiati smettono di cercar lavoro; la diseguaglianza dei redditi continua inoltre ad aumentare, creando un divario che rischia di inghiottire la classe media.
Il tavolo di Obama o Romney sarà quindi piuttosto ingombro di problemi, e il nuovo Presidente dovrà mettersi al lavoro subito perché il cosiddetto «precipizio fiscale» è dietro l’angolo. A fine anno terminano infatti importanti sconti fiscali e, in assenza di un accordo con il Congresso, in un Paese in cui il tetto del debito pubblico è fissato per legge, oltre all’inasprimento fiscale, potrebbero scattare, in maniera quasi automatica, anche tagli «lineari» alla spesa pubblica che in poco tempo metterebbero in ginocchio l’economia degli Stati Uniti e si ripercuoterebbero pesantemente sull’intera economia mondiale. Naturalmente nessuno pensa che il Congresso sarà così miope, ma il Fondo Monetario Internazionale ha già lanciato l’allarme: evitare di cadere nel precipizio sarà il primo compito di chi lavorerà nell’Ufficio Ovale della Casa Bianca, tradizionale luogo di attività del Presidente degli Stati Uniti.
Questa tempesta potrà essere evitata, ma l’economia americana rimarrà con i suoi problemi di fondo, aggravati dalle preoccupazioni borsistiche. La caduta di circa il 10 per cento nelle quotazioni di Google nel mese di ottobre è un segnale d’allarme sul fronte di Internet che si aggiunge al disastro della quotazione di Facebook e a un certo numero di risultati poco lusinghieri di altre grandi società nel terzo trimestre; è quindi legittimo avere dei dubbi sull’effettiva capacità della nuova informatica di creare grandi profitti. Un equilibrio precario, insomma, un insieme di interrogativi che sono stati incautamente accantonati nel corso della campagna elettorale e ai quali il nuovo Presidente dovrà dare una risposta in tempi estremamente brevi.
L’Europa è stata quasi assente dal dibattito della campagna elettorale, se si eccettuano le accuse rituali – e largamente gratuite – all’euro che, con la sua particolare crisi, secondo il presidente Obama, sarebbe la causa dell’attuale rallentamento dell’economia. Si dovrebbe ricordare al Presidente la vecchia massima secondo la quale si vede facilmente la pagliuzza nell’occhio del vicino e si ignora la trave nel proprio. Forse sarebbe un bene per tutti, senza che con questo si voglia fare alcuna recriminazione o attribuire colpe, che il vincitore delle elezioni del 6 novembre si rendesse conto che la crisi è essenzialmente una crisi del sistema americano e che i rimedi devono partire dall’America.
Detto questo per gli europei sarebbe leggermente preferibile una vittoria elettorale di Obama: entrambi i candidati, infatti, hanno avuto scarsi contatti con l’Europa e non sembrano nutrire al suo riguardo alcuna particolare simpatia. Obama e la sua squadra, tuttavia, hanno avuto quattro anni per imparare a collaborare con l’Europa. Se invece vincesse Romney, con i suoi orizzonti pressoché esclusivamente americani, si dovrebbe ricominciare tutto da capo, con il rischio di nuove incomprensioni.
La Stampa 04.11.12