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“Casa Bianca adesso Obama spera nell’Ohio”, di Vittorio Zucconi

C’è un terzo uomo senza volto che potrebbe vincere queste presidenziali americane, un “convitato di pietra” che siede al tavolo della incertezza fra Romney e Obama. Il suo nome è Nessuno. Il suo partito è il Partito X. È IL partito del possibile pareggio fra i due contendenti nel solo numero che conti per essere eletti Presidente degli Stati Uniti, i 270 su 538 “grandi elettori” nei quali si tradurranno secondo la Costituzione i cento dieci milioni di voti che saranno espressi domani.
Per raro che sia nella storia della repubblica nordamericana e per remota che sia la possibilità statistica, il “Fattore X” non è mai stato così forte dall’anno 2000, quando George W. Bush, dopo un mese di strazianti e a volte ridicole «riconte» fra «schede vergini » e «schede incinte» secondo le perforazioni e le protuberanze lasciate dalle matite, riuscì ad afferrare la Casa Bianca con un solo elettore sopra il margine minimo, 271. E il lasciapassare dei giudici della Corte Suprema, sempre per un solo voto, 5 a 4.
Nessuno dei sondaggi garantisce a Obama, né a Romney, un vantaggio che sia oltre quella percentuale di errore che tutte le ricerche demografiche serie comportano e che andrebbe sempre annunciato. Anche dove Obama è avanti di 3 o 4 punti percentuali, il dubbio sulla affluenza e il ricordo “dell’Effetto Bradley” rende tutto aleatorio. Tom Bradley era il sindaco afroamericano di Los Angeles che nel 1982 concorse alle elezione per il Governatorato della California sicuro dei sondaggi che lo davano stabilmente al 3% sopra l’avversario. Perse, perché una quota di elettori che avevano promesso di votare per lui, temendo di apparire razzisti, nel segreto della cabina votarono l’avversario bianco.
Nel 2008, “l’Effetto Bradley” fu travolto dall’onda di marea che portò Obama alla Casa Bianca con grande vantaggio. Ma se in questo 2012 il riflusso dell’entusiasmo fra i democratici, i giovani, le donne, i latinos per lui fosse forte come le indagini sospettano, tutti quei minuscoli punti percentuali di maggioranza che oggi danno il presidente come favorito sarebbero risucchiati e cancellati. E potrebbero lasciare lui e Romney a dividersi esattamente il bottino dei 538 grandi elettori, malauguratamente costruiti, dagli emendamenti della Costituzione, in numero pari, dunque esattamente divisibile. 538 quanti sono i 435 collegi elettorali per la Camera dei Rappresentanti, più i 100 collegi senatoriali (due per ogni Stato membro dell’Unione) più tre assegnati al Distretto di Columbia, la capitale Washington, che non ha una propria rappresentanza parlamentare.
Le permutazioni aritmetiche fra voti popolari e delegati di singoli stati sono straordinariamente complesse, ma non affatto escluse. Nate Silver, il più autorevole e imparziale fra gli analisti di sondaggi che ogni giorno soppesa, filtra e distilla le dozzine di «polls» spesso completamente contraddittori e faziosamente colorati, tende a escluderla, dando a Obama l’80 per cento di probabilità di superare la soglia magica del 270 e a Romney appena il 20%. Ma essere favoriti non significa essere vincitori, avverte Silver. «Il 20% sembra poco — si chiede — ma chi di noi si fiderebbe a imbarcarsi su un aereo che ha il 20% di probabilità di precipitare?».
Ma ogni combinazione astrale è verosimile, in favore di «Mister Nessuno». Se Obama perdesse i 18 voti elettorali dell’Ohio dove è favorito — e Romney vincesse i 20 della Pennsylvania, dove è indietro, se Florida, Virginia, Wisconsin, Colorado, North Carolina, New Hampshire, Nevada, gli Stati chiave, dovessero disporsi in un mosaico imprevisto e stati sicuri per Obama come il New Jersey risultare sconvolti dal disastro Sandy che impedirà a decine di migliaia di cittadini di votare per mancanza di seggi e di mezzi di trasporto, tutto diventa aritmeticamente realistico.
Toccherebbe allora a Camera e Senato decidere il risultato, come non accade più dal 1825, l’unico caso di una Presidenza decisa dal Parlamento, che scelse John Quincy Adams, dopo l’approvazione del XII emendamento. Vincerebbe allora certamente Mitt Romney, perchè la Camera è, e rimarrà nelle mani dei repubblicani, e ad essa spetta la decisione. Ma è il Senato che invece deve eleggere il vice presidente e il Senato resterà Democratico. Si avrebbero così un Presidente Romney e un Vice Presidente Biden, di partiti opposti. E sarebbe la definitiva affermazione per coloro, sempre più numerosi, ma ancora non abbastanza, che da decenni vorrebbero buttare a mare un sistema elettorale anacronistico, scritto e costruito per una nazione che contava appena 13 stati e funzionava a forza di muscoli umani o animale. E scelse il martedì come giornata di voto pensando a un elettorato in grado di spostarsi soltanto a piedi, a cavallo o in calesse. Dunque niente domenica, perché è il «sabbath» del Dio dei Cristiani. Niente lunedì, perché le distanze erano troppo lunghe per consentire ai devoti di raggiungere seggi con i loro modesti mezzi. E neppure mercoledì, giorno dedicato all’altro grande Dio della neonata nazione, il giorno dei mercati, era
accettabile.
Già la tragicommedia del 2000, quando 537 voti in Florida a favore di Bush contarono più dei 550 mila che nel resto degli Usa avevano assegnato la maggioranza popolare a Gore fece rabbrividire, e vergognare, la nazione che si vanta di essere la «luminosa città sulla collina» della democrazia. Obama potrebbe vincere la Casa Bianca prendendo, come già Bush, meno voti complessivi di Romney, ma più dei 270 «grandi elettori» necessari. Un presidente senza mandato. E una garanzia di altri quattro anni di boicottaggi, di stallo, di rabbia e di recriminazioni e di ulteriore discredito per la dirigenza politica. Lo specchio perfetto e ironico di un’altra democrazia, e la più importante del mondo, paralizzata dal rancore e
dalla divisioni interne.
La Repubblica 05.11.12
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Harlem torna in trincea per Obama “Dobbiamo portare tutti ai seggi”, di Federico Rampini
«Don’t forget Tuesday! Tuesday is Obama Day!» Suona gioioso nel cuore di Harlem il richiamo: martedì è il giorno di Obama, non dimenticatevi di votare. Lo grida il senzatetto che chiede l’elemosina alla fermata del metrò sulla 126esima strada, all’angolo con Lenox Avenue ribattezzata Malcom X Boulevard. Riscuote un successone. I clienti che escono dal ristorante “Sylvia’s, Queen of Soul Food” premiano con generosità il vecchio homeless che s’improvvisa propagandista elettorale. Siamo nel cuore di Obama- land, quartiere storico dell’orgoglio afroamericano. Eppure anche Harlem oggi tradisce le sue incertezze, quattro anni dopo la storica vittoria del primo nero candidato alla Casa Bianca.
Un isolato più su, sulla 127esima, un negozio ha in vetrina due manifesti: il primo è “Harlem4Obama 2012”, locandina della cellula democratica di quartiere. A fianco c’è il manifesto sul 17esimo anniversario della “marcia di un milione” (celebre protesta di neri musulmani a Washington, finita in scontri violenti). Annuncia la conferenza del celebre predicatore ultra-radicale Louis Farrakhan sul tema “Maometto insegna come sconfiggere la povertà”. Proprio mentre la destra razzista continua ad alimentare con messaggi subliminali la falsa leggenda di Obama kenyano e musulmano, la vera “nazione islamica” dei neri d’America considera questo presidente un moderato che non è riuscito a cambiare il destino della sua gente. Le famiglie di neri poveri che affollano la chiesa dell’Esercito della Salvezza sulla 138esima strada non si fanno illusioni su Obama Due. Per loro, con una disoccupazione che è il triplo della media nazionale, la vita quotidiana assomiglia da anni a quello spettacolo di precarietà e insicurezza che ora domina i telegiornali solo perché dopo l’uragano colpisce i bianchi di New York e New Jersey.
Ma c’è un’altra Harlem che per Obama si batte fino all’ultimo minuto. La trovo finalmente spingendomi sulla 141esima, al quartier generale dei democratici. È qui che la base afroamericana organizza le operazioni “ get-out-thevote”, letteralmente “tirar fuori” i voti uno per uno, andando a cercare gli elettori a casa. Partono a ondate i torpedoni pieni di militanti, diretti verso la Pennsylvania. «Tanto a New York noi si vince — mi dice Oscar Williams prima di salire a bordo — , ora le nostre forze sono preziose negli Stati vicini, quelli ancora in bilico, dove si gioca la partita decisiva di domani.
Guai se Mitt Romney dovesse sfondare in Pennsylvania, potrebbe esserci fatale». Sul marciapiede di partenza dei torpedoni una bancarella vende distintivi “Il cambiamento climatico è reale, Romney è falso”, messaggio d’attualità nel dopo-uragano. Un altro distintivo evoca l’orgoglio “afro”, anche estetico: “Non importa come ti pettini i capelli, la più bella sei tu Michelle”.
In questa Harlem le librerie pubblicizzano i manuali Sat per preparare il test di entrata al college, qui abita un ceto medio afroamericano che s’identifica con la biografia dei coniugi Obama, ne condivide i successi, l’ascesa sociale, le frustrazioni. Kamali Carter, impiegata in uno studio legale, si distoglie un attimo dalle telefonate a ripetizione che sta facendo a una lunga lista di elettori: «L’altro giorno per via della paralisi del metrò mi trovo a condividere un taxi con una signora anziana, bianca. Mi apostrofa: non mi dire che voti Obama? Volevo risponderle: tu voti Romney perché sei bianca? È un insulto che fanno alla nostra intelligenza. Non votiamo per solidarietà razziale. Lo ha detto il repubblicano Colin Powell, ex segretario di Stato di Bush: sono le politiche di Obama che ci convincono».
Lisa Jones Brown, 44 anni, sceneggiatrice tv, anche lei afroamericana, lo spiega così: «I miei genitori parteciparono alle battaglie per i diritti civili, io appartengo a una generazione più fortunata, ma ci sono altre forme di discriminazione, più sottili, negli ambienti di lavoro: le subisco come nera e come donna. Ecco, ciò che mi motiva a fare militanza in questi giorni è mia figlia di 7 anni. Voglio che cresca in un’America che assomiglia a Obama, non a Romney. Il repubblicano ci ricaccerebbe indietro di 40 anni. Sul controllo delle nascite, sulla salute, sulle diseguaglianze retributive, sui posti di lavoro: stanno lì le ragioni forti per votare democratico, non il colore della pelle di questo presidente». Ma non ha sentito una sorta di apatìa qui ad Harlem, per le delusioni di questo primo mandato? «Fino a quest’estate sì, la disaffezione c’era. Poi qualcosa è scattato. Le sporche manovre per limitare il diritto di voto delle minoranze, per introdurre ostacoli e controlli di ogni sorta ai seggi elettorali in chiave discriminatoria, questo ci ha ricordato il vero volto della destra, è stato un allarme». La Brown parte per Philadelphia, Pennsylvania, con sua figlia adolescente. Sa che è un lavoro duro, la “raccolta porta a porta” di tutti gli elettori: «A volte veniamo respinti malamente, altre volte troviamo una gran miseria, un disinteresse per la politica che nasce dalla disperazione ». Ma questo è il lavoro più prezioso nelle ultime ore della sfida che si gioca sul filo del traguardo: già cominciano le prime contestazioni e ricorsi, in Florida, a conferma che ogni voto sarà conteso.
Sul torpedone della speranza che parte da Harlem per i quartieri poveri di Philadelphia, c’è un anziano sindacalista nero: «Siamo noi i figli di p… che non piacciono alla destra. Salvo rivolgersi a noi quando anche la middle class ha bisogno di salvare la propria pensione, l’assistenza sanitaria agli anziani, il posto di lavoro minacciato dalle delocalizzazioni e dagli squali della finanza come Romney. Il voto di domani è un referendum sul ruolo dello Stato nell’economia, sui diritti di noi lavoratori ».
La Repubblica 05.11.12