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"Malati di Cie", di Flore Murard-Yovanovitch

Al di là di quelle sbarre, le cure sono minime. Nei Centri di Identificazione e Espulsione (CIE), come da Capitolato d’appalto del Ministero dell’Interno, l’assistenza sanitaria è di primo soccorso. Un approccio emergenziale che risale all’istituzione dei primi Cpt nel 1998, che non è però più adeguato all’allungamento del trattenimento a 18 mesi negli odierni Cie, perché interrompe de facto i percorsi terapeutici e i trattamenti di medio-lungo periodo. Nel 2011, secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono stati 7.735 (6.832 uomini e 903 donne) i migranti, privati dalla loro libertà personale, perché senza permessi di soggiorno – per la violazione, cioè, di una disposizione amministrativa e non per aver commesso un reato -, e trattenuti nei 13 CIE operativi in Italia. 7.735 persone, per cui un diritto fondamentale come quello della salute, come emerge dal monitoraggio sistematico effettuato dall’ong Medici per i Diritti Umani (Medu), non è stato sempre garantito.
All’ingresso in quella istituzione chiusa, il check-up iniziale è relativamente superficiale. Il personale sanitario delle ASL non ci ha accesso. I medici che ci operano sono privati “chiamati” direttamente dall’ente gestore che gestisce il centro per conto dello Stato, e mancano spesso delle competenze specialistiche in ambiti come ginecologia e psichiatria. Inoltre, scarseggiano i servizi di mediazione culturali e gli interpreti qualificati per le consultazioni medicali, come esige invece il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT Standards). Se l’ente gestore assicura spesso di avere stabilito un buon collegamento con i servizi delle Aziende Sanitarie Locali (Asl), o strutture sanitarie esterne, in realtà la maggior parte dei centri non ha stipulato protocolli. Cioè, non esiste nessun regolamento per il riferimento e l’invio dei pazienti a visite specialistiche o analisi di laboratorio, per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive come TBC, HIV ed epatiti o altre patologie grave o croniche.
Per una visita medica fuori dal Cie, è obbligatoria la scorta di polizia. Ma la paura che il detenuto simuli o usi il trasferimento in strutture esterne per allontanarsi, porta spesso a sottovalutare la sua richiesta o sottostimare i sintomi denunciati. I pazienti lamentano la persistente disattenzione dei sanitari nei confronti delle loro patologie, e loro, il timore delle simulazioni. In bocca di un medico del Cie di Lamezia Terme, essi limiterebbero il più possibile questi trasferimenti all’esterno. All’interno di una struttura del tutto simile al carcere ma che non ne possiede i requisiti né le garanzie, viene quindi meno il normale rapporto di fiducia tra medico e paziente: sostituito da una relazione carceriere-sorvegliato.
Se ti senti male, quindi, devi chiamare la guardia, che chiama l’ente gestore, che chiama il medico, e vieni inserito in una lunga lista d’attesa… Dall’indagine dell’International University College (IUC) sul Cie di Torino (“Betwixt and Between”) emerge che i casi di gravi ritardi nella prestazione delle cure sarebbero numerosi. I detenuti hanno raccontato di un ragazzo che aveva ingerito un oggetto e che è rimasto per ore disteso a terra vicino al cancello, senza soccorso. Un altro, soggetto a crisi epilettiche avrebbe dovuto essere ricoverato in ambito ospedaliero visto i gravi pericoli insiti nella patologia. A Omar, caso reso pubblico dall’Ong Medu, i ritardi nella corretta diagnosi di un cancro maligno, sono stati devastanti, quasi fatali. Ma nei carceri per solo migranti, i casi di negazione delle cure, potrebbero essere ancora largamente sconosciuti e più numerosi.
Quando non è il corpo, in quelle “gabbie”, è la psiche ad ammalarsi. La promiscuità totale. I percorsi di vita diversi. Tra migranti appena giunti, persone che vivono e lavorano da anni in Italia, ex-carcerati, richiedenti asilo, persino cittadini dell’UE (romeni), e categorie particolarmente vulnerabili come tossicodipendenti e vittime della tratta. Persone quindi, che hanno esigenze fondamentali diverse e sarebbero bisognose di accedere a percorsi individuali di aiuto. Invece, la prospettiva di 18 mesi, senza attività ricreativa, separati dai propri figli spesso nati in Italia e senza visite dei propri famigliari, è un incubo. Mesi vuoti, obbligati in uno stato di ozio coatto, dove non è consentito ai cosiddetti “ospiti”, per motivi di sicurezza, il possesso di un giornale, di una penna, di un pettine. Nemmeno di un libro. Un nulla spazio-temporale – che il Rapporto della Commissione diritti umani del Senato non esitava a definire “peggiore del carcere”, per l’assenza delle garanzie offerte dal sistema penale. Una detenzione arbitraria e inutile, visto che meno della metà dei trattenuti viene effettivamente rimpatriata, ma che ha invece pesanti conseguenze sulla loro vita.
Il profondo e diffuso malessere, è testimoniato dai continui tentativi di suicidio e dalle numerose autolesioni inferte sui corpi. Viti, tubi, batterie, tutto va ingoiato o le vene tagliuzzate purché essere trasferiti all’ospedale. Nel solo 2011 nel Cie di Torino, sono stati riscontrati 156 episodi di autolesionismo (100 dei quali per ingestione di medicinali e corpi estranei, 56 per ferite da arma da taglio). L’indicibile, lo svelano le dirompenti perdite di peso, l’insonnia, la depressione, le patologie ansiose quando non i veri e propri disturbi mentali.
Ma nei Cie non sempre è prevista la presenza di un servizio di sostegno psicologico, o solitamente esso è minimo e reattivo. Solo dopo i ripetuti atti violenti nel centro di via Brunelleschi a Torino, sono stati recentemente introdotti degli psicologi ma in altre strutture non ce ne sono sempre. Pur non essendo disponibili dati ufficiali, molti professionisti e volontari riferiscono di un ampio, e presumibilmente poco ponderato, ricorso ai psicotrop, a base di benzodiazepine. Ritrovil, Tavor, Talofen, ecc… Il problema: si somministrerebbe senza prescrizione o supervisione di un medico psichiatra specialista. “Mi danno 40 gocce di Minias e 30 di Tavor ogni sera”, confessa una detenuta nel Cie di Torino. Come racconta un ragazzo diciottenne al 26 giorno di trattenimento: “Certo che prendo psicofarmaci, se non lo fai, vai fuori di testa qua”. Difficile, poi in caso di sovraffollamento gestire adeguatamente tutti i casi.
Angoli bui, opachi, inquietanti della salute pubblica. Lasciati alla discrezionalità totale dalla parte degli enti gestori. Nei Cie, presidi sanitari, livelli igienici e di vivibilità degli ambienti e condizioni sanitarie degli stranieri detenuti non sono monitorati dalle autorità sanitarie pubbliche. I dati sanitari sono gravemente carenti – per assente raccolta e sistematizzazione – e non ci sono linee guida a livello centrale. I continui dinieghi del Ministero dell’Interno di rendere disponibili a MEDU o a MSF, a parte singoli casi, le convenzioni stipulate tra i singoli enti gestori e le Prefetture locali testimoniano di questa mancata trasparenza.
Oltre quelle mura, le veridicità delle indegne condizioni di detenzione è raccontata, in silenzio, dai ripetuti scioperi della fame, incendi dolosi e atti di vandalismo, dalle continue rivolte e fughe – raddoppiate in quasi tutti centri visitati da Medu dall’anno precedente. Senza nominare le denunce di abuso – punizioni in cella di isolamento, manganellate, quotidiane imposizioni, insulti verbali, a volte a contenuto razziale – che costituiscono potenziali casi di trattamento inumano e degradante della persona umana.

“Qui è peggio di un carcere” è la frase che si capita sempre di sentire con più frequenza quando si ha accesso ad un Cie. “Vorrei che questo centro scomparisse e basta”, dice un’altra trattenuta a Torino; altri si vedono come “corpi a disposizione totale della struttura”. Le testimonianze dirette dei trattenuti, non lasciano dubbio. In 18 mesi, la mente e il corpo hanno tempo di ammalarsi e da quel luogo, si esce in generale con condizioni peggiori di salute.
L’unità 21.01.13