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Il discensore sociale, di Ilvo Diamanti

Il lavoro non è “finito”, come preconizzava Jeremy Rifkin. Ma è cambiato profondamente. Sulla spinta della crisi, oltre che delle trasformazioni economiche e tecnologiche. Anche gli orientamenti verso il lavoro, in Italia, sono cambiati, negli ultimi anni. In modo rapido e non lineare. È ciò che suggerisce la lettura dei dati del sondaggio condotto da Demos Coop per la Repubblica delle idee.
1. Il “lavoro in proprio” e la “libera professione” non costituiscono più un mito condiviso, come negli ultimi vent’anni. Nel 2004 – considerati insieme – costituivano il primo riferimento per oltre metà degli italiani (53%).
OGGI per meno del 40%. Per contro, ha ripreso a farsi sentire il richiamo del lavoro dipendente nella piccola e, ancor più, della grande impresa. Ma, soprattutto, il “pubblico impiego” oggi è (ri) diventato il lavoro preferito dalla maggioranza degli italiani: il 31%, 5 punti più del 2004.
Le spiegazioni di questo mutamento di opinione sono diverse.
2. La più importante, forse, è l’insicurezza. Tra coloro che, nell’ultimo anno, affermano di aver lavorato, la quota di quanti dichiarano un impiego “sicuro” è il 42%. La stessa misura di coloro che lo definiscono “temporaneo” o “precario”. Tutti gli altri — il 16% — lo considerano, invece, “flessibile”. La flessibilità, nella percezione sociale, non richiama debolezza. Indica, piuttosto, un’attività, meno strutturata e regolata. La “precarietà”, invece, è “stabile temporaneità”. Del lavoro e del reddito.
3. La crescita della precarietà ha, dunque, rafforzato l’importanza del “posto fisso”. Pubblico o privato, non importa. Il 41% degli intervistati ambisce a un “posto sicuro”. Che garantisca un reddito “sicuro”, prima ancora che elevato. Anche la ricerca di un lavoro gratificante, che dia “soddisfazione”: perde relativamente di peso.
4. D’altra parte, il 20% degli intervistati sostiene che nell’ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha perduto il lavoro; il 18% che qualcuno è stato messo in mobilità o in CIG; il 35% che qualcuno ha cercato un’occupazione — ma senza esito. Il 10%, infine, dichiara di avere un contratto di lavoro in scadenza.
La paura di rimanere disoccupati appare, dunque, in grande aumento. Coinvolge il 56% degli italiani. È cresciuta di 26 punti percentuali in circa cinque anni. Nello stesso periodo, la paura di perdere la pensione è salita di quasi 20 punti:
dal 36 al 54%.
5. Così, sembra essersi bloccato il mito dell’ascensore sociale. Che aveva mobilitato gran parte della società, facendola sentire “ceto medio”. Nel 2006 era il 60%. Oggi il 43%. Mentre la componente di chi si sente ceto “medio-basso” oppure “basso” è divenuta maggioranza: dal 28% al 51%.
Le componenti sociali maggiormente investite dalle paure riguardo al lavoro sono, ovviamente, le più vulnerabili. Gli anziani, con minore livello di
istruzione. Le donne. Considerate ancora discriminate, circa le possibilità di carriera, dal 58% degli intervistati.
Tuttavia, secondo il sondaggio di Demos-Coop, le preoccupazioni maggiori riguardano il futuro dei giovani e dei figli (62%; 16 punti in più in circa 5 anni). Il 64% degli italiani li invita ad andarsene all’estero. Perché questo non è un Paese per giovani.
6. La crisi del lavoro, come fonte di organizzazione e di riconoscimento sociale, dunque,
sta erodendo la fiducia nel futuro. Ma anche nelle istituzioni e nei soggetti di rappresentanza. Non solo nei partiti e nello Stato. Anche le associazioni economiche. Così, non resta che la famiglia a difendere i lavoratori. L’ultima cittadella assediata. Dal 2004 ad oggi il dato relativo al suo peso, nella percezione degli italiani, è triplicato: dal 10% al 30%.
7. Al contempo, nel tessuto sociale e fra gli stessi lavoratori, si aprono significative divisioni. Una fra tutte: verso l’impiego pubblico. Il 60% degli italiani ritiene, infatti, che i “dipendenti pubblici godano di privilegi insostenibili”. In altri termini, mentre cresce l’interesse per il posto pubblico, il pubblico impiego è visto con diffidenza. Non è l’unica contraddizione “cognitiva”. Infatti, fra gli italiani è calato l’interesse a intraprendere un lavoro autonomo e professionale ed è in aumento la domanda di occupazione nelle grandi imprese. Eppure, la fiducia nelle piccole aziende appare molto più ele-
che verso le grandi imprese. Anche l’appeal della Fiat, oggi, è limitato.
8. Da ciò l’incertezza verso il futuro. Denunciata da circa il 60% degli italiani: 15 punti in più rispetto al 2006. Prima della crisi. L’insicurezza tocca, ovviamente, gli indici più elevati fra le componenti più “precarie” della società. Insicure per definizione. Perché la “precarietà” nasconde il futuro.
9. Così si spiega il senso di disorientamento diffuso. Riflette perdita di senso e di orizzonte. E di “posizione”. Perché il lavoro continua ad essere il riferimento più importante della società. Non a caso, se si guarda la classifica delle professioni in base al prestigio sociale, si osserva
come, al di là del punteggio, “tutte” le professioni godano di considerazione. Ad eccezione dei “politici”, molto al di sotto della sufficienza, gran parte dei “lavori” — dagli imvata
prenditori agli operai, dai medici agli insegnanti — superano il 7,5. E negli ultimi anni, “guadagnano”, ulteriormente, stima sociale.
10. Un altro segno dell’importanza del lavoro, tanto più in tempi di crisi. Quando incombe la disoccupazione e la precarietà diventa “normale”. Perché lavorare non dà solo reddito. Dà dignità. Riconoscimento. Identità. Lavorare stanca. Non lavorare: umilia.

da La Repubblica