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La solitudine dell'Articolo 1, di Gustavo Zagrebelsky

Se, per esempio, l’Autore dei Ricordi dal sottosuolo fosse tra noi e riprendesse la parola, troverebbe nel nostro tempo ragioni per convalidare quella che, allora, fu formulata, e generalmente considerata, come la farneticazione d’un visionario: «Allora tutte le azioni umane saranno matematicamente calcolate secondo quelle leggi…oppure, meglio ancora, ci saranno pubblicazioni benemerite, sul genere degli attuali lessici enciclopedici, in cui ogni cosa verrà calcolata e stabilita tanto esattamente, che al mondo non si daranno più azioni né avventure » (ma si finirà nella noia mortale, aggiungeva Dostoevskij).FORSE, l’opera non è ancora conclusa, né tantomeno è conclusa con generale soddisfazione, ma certamente è in corso, come tentativo o, almeno, tendenza. Eppure, quel “fondata sul lavoro” che apre la nostra Costituzione vorrebbe essere il preannuncio di azioni e avventure indipendenti dalle tabelle di logaritmi econometrici. Vorrebbe starne fuori, anzi prima. Fuori dalle immagini letterarie, la questione è formulabile nei semplici termini seguenti. La Costituzione pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia. Oggi, assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro. Dicendo “dipendere” non s’intenda necessariamente determinare, ma condizionare, almeno, questo sì. Ora, il senso del condizionamento o, come si dice, delle compatibilità è certamente rovesciato. Il lavoro, da “principale”, è diventato “conseguenziale”. La Repubblica, possiamo dirla, senza mentire, “fondata” sul lavoro?
Si dice che l’attività economica si è oggi spostata dalla cosiddetta “economia reale” alla “economia fittizia”, l’economia finanziaria. Questa seconda mira a produrre denaro dal denaro, attraverso transazioni finanziarie, più o meno spericolate, più o meno lecite, che generano quelle che si chiamano “bolle speculative”, scoppiate o pronte a scoppiare. Ora, l’economia reale può produrre lavoro e stabilità sociale; quella fittizia, no. Sottrae risorse al mondo del lavoro, produce instabilità sociale e favorisce i pochi signori della finanza, fino a quando non saranno anch’essi travolti, e noi con loro, da un sistema privo di fondamento. Questa finanza “mangia” l’economia reale, l’indebolisce, è nemica del lavoro. Perfino nelle difficoltà dell’economia reale s’avvantaggia. Le crisi finanziarie che s’abbattono sui conti degli Stati sono determinate dagli interessi finanziari medesimi e sono certificate da agenzie indipendenti solo in apparenza, in un colossale conflitto (o, sarebbe meglio dire, in una colossale connivenza) d’interessi. Che cosa ha prodotto, del resto, il “risanamento” che il mondo finanziario internazionale chiede agli Stati, come condizione dei loro investimenti? Chiede “riforme”. E queste riforme a che cosa hanno portato? Finora, a contrazione dell’economia reale, a crisi delle imprese, a disoccupazione crescente, al peggioramento delle condizioni dei lavoratori, a emarginazione del lavoro femminile, a riduzione delle protezioni sociali.
Bisogna dire con chiarezza: la finanza come mezzo e come fine è nemica della Costituzione. Di fronte alla pervasiva forza, legale e illegale, della finanza, la politica si dimostra troppo spesso succuba, connivente o collusa. Chi sa resistere alla forza del danaro, che corrompe o, almeno, debilita le forze che dovrebbero regolarla? Ora si pone la domanda che nessun giurista vorrebbe mai doversi
porre: siamo padroni dei rapporti sociali ed economici o siamo condannati al darwinismo sociale? Se vale questa seconda risposta, la Costituzione, per la parte del lavoro, dovremmo dirla antiquata, superata dalla forza delle cose. Se vale la prima, resta aperta la possibilità d’una politica costituzionale del lavoro. Chi deve agire sono le forze politiche, sindacali e culturali. A loro, la decisione, che non è un’astratta scelta di preferenza, ma un programma concreto di lotta politica.
Ora, in fine, un’osservazione, da “uomo del sottosuolo”. Di fronte ai disastri sociali della finanza speculativa, occorre ritornare alla “economia reale”, cioè alla produzione di ricchezza per mezzo non di ricchezza, ma di lavoro e di ricchezza investita sul lavoro. La parola d’ordine è “crescita”. Per aversi crescita occorre stimolare i consumi, affinché i consumi, a loro volta, diano la spinta alla produzione e, dalla produzione, nasca lavoro cioè reddito che, a sua volta, alimenta i consumi: una ruota che deve girare. Tanto più consumiamo, tanto più lavoriamo e tanto meglio svolgiamo la nostra parte. Naturalmente, non è detto che tutti lavorino e consumino come gli altri. Ci sarà chi può lavorare di meno e consumare di più, e chi deve consumare di meno e lavorare di più. Dipende dai rapporti sociali, cioè dalla distribuzione dei vantaggi e degli svantaggi, cioè dai criteri di giustizia vigenti. In ogni caso, c’è qualcosa di sinistro in questa raffigurazione: l’essere umano che lavora per poter consumare e consuma per poter lavorare.
Qui viene l’osservazione “umanistica”. L’economia mondializzata, omologata agli standard produttivi delle grandi imprese, la grande distribuzione al loro servizio, la pubblicità che orienta i consumi e crea stili di vita uniformi: tutto ciò produce un’umanità funzionalizzata, ugualizzata nei medesimi bisogni e nelle medesime aspirazioni: in una parola, confluisce in una medesima cultura. Ciò significa elevare il conformismo a virtù civile. È questo ciò che vogliamo? O non occorrerebbe invece prestare attenzione a ciò che di originale si muove e cerca di crescere: nuove e antiche professioni, che cercano di emergere o riemergere, nuove forme di produzione, di collaborazione tra produttori, nuove reti di collegamento solidale tra produttori, nuove modalità di distribuzione e di consumo; riscoperta di risorse e patrimoni materiali e culturali esistenti, ma finora nascosti o dimenticati. Il nostro Paese avrebbe tante cose e tante energie da portare alla luce nell’interesse di tutti, cioè nell’interesse del “progresso materiale e spirituale della società”, come recita l’art. 4 della Costituzione. Nelle società libere, il compito della politica è capire, orientare e aiutare ciò che di fecondo cresce e, parallelamente, opporsi a ciò che cerca di riproporsi, secondo esperienze che hanno già fatto il loro tempo. Su questo terreno, mi pare che debba cercarsi la risposta a quella che, altrimenti, sarebbe solo una stucchevole controversia: la risposta alla domanda che cosa, oggi, voglia dire essere conservatori o innovatori.

Da La Repubblica