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"L’Internazionale del ballo per difendere le donne", di Adriano Sofri

Dunque domani donne e uomini di tutto il mondo – “un miliardo” – balleranno nelle strade e nelle piazze per dire no alla violenza contro le donne. Mettiamo insieme qualche notizia recente. In India, dopo l’episodio atroce dello stupro di branco della studentessa “Amanat”, morta dopo tredici giorni di agonia, le donne che chiedono il porto d’armi per difesa personale si sono moltiplicate bruscamente. È entrato in funzione il primo tribunale composto di sole donne per giudicare crimini contro le donne.
In Italia, dove le uccisioni di donne sono pressoché quotidiane, le cronache hanno registrato due omicidi compiuti da donne, sul marito e sull’amante; nel secondo caso dopo anni di angherie. La cronista che ne ha riferito ha scritto, senza virgolette, “maschicidio”, a ragione (si può prevedere che il termine solo apparentemente neutro di “omicidio”, per non dire di “uxoricidio”, sia destinato a uscire dal lessico comune, e forse anche da quello giudiziario, quando si tratti di un uomo che uccide una donna o viceversa). Ancora, secondo le cronache, un uomo che ha tentato efferatamente di ammazzare la propria moglie avrebbe lamentato che non volesse lavargli la tuta del calcetto. Il disgraziato manifesto di un prete di Lerici menzionava l’abitudine delle mogli moderne di far arrivare in tavola la minestra fredda.
Il clou della denuncia era tuttavia nell’abbigliamento delle donne, tale da indurre i veri uomini in tentazione, di violenza se non di femminicidio. (Quando ha detto: “Ma lei è frocio? E se no, che cosa prova quando vede una donna mezza nuda?” il prete di San Terenzo stava confessando: “Io non sono frocio, e quando vedo una donna mezzo nuda…”). Nel piccolo Swaziland, dove il re sceglie ogni anno una nuova moglie fra le giovani a seno nudo, a Natale la polizia ha annunciato che avrebbe fatto rispettare più severamente il divieto di indossare minigonne e jeans a vita bassa “perché facilitano lo stupro”. Una analoga legge arcaica è in vigore ad Adelaide, Australia: il portavoce della polizia ha detto che “lo stupro è facilitato, perché è facile togliere il mezzo vestito indossato dalle donne”. Nel 1999 una memorabile sentenza di Cassazione italiana sostenne che è difficile togliere i jeans “senza la fattiva collaborazione della donna”. Bisognò aspettare il 2008 per leggere una sentenza correttrice.
Negli stessi giorni dell’affare di Lerici si discuteva dello stupro della ragazza indiana. La scrittrice Anita Nair scriveva, tradotta su Repubblica: “Mia madre mi ha sempre detto di guardarmi le spalle. Non prendere taxi e automobili se non sai che è un servizio sicuro. Non attirare l’attenzione su te. Chiedi a tuo marito al tuo fidanzato a tuo fratello di accompagnarti…”. E Mira Kamdar: “Mio nonno, urlandomi rimproveri per il vestito o il mio modo di parlare, mi fece capire che il solo modo per proteggermi dal pericolo continuo degli uomini era di comportarmi e vestirmi così da rendermi invisibile”. E così via, infinite testimonianze. “Nessuna donna a Delhi si avventura sola fuori di casa dopo le 5 di pomeriggio”. Colpiva l’apparente somiglianza fra i precetti del prete e le raccomandazioni delle donne indiane: solo che le seconde sono le vittime. Nel mondo si conduce una guerra di liberazione e di riconquista delle donne, non dichiarata, non riconosciuta. È la posta della stessa guerra in Afghanistan, incarnata nella quindicenne Malala, assaltata ferocemente da uomini perché difende il diritto all’istruzione per le bambine afgane. Era e resta la posta delle primavere arabe, e prima del-l’Iraq e della Libia. In Tunisia una giovane stuprata dai poliziotti è stata mandata a processo per attentato al pudore.
In Israele i rabbini ultraortodossi vogliono la separazione fra uomini e donne nei bus, nei negozi e sui marciapiedi, e un abbigliamento che copra le donne fino ai polsi e alle caviglie. Una bambina di 8 anni è stata insultata e sputata da uomini per un abito da loro ritenuto immodesto.
Nel gennaio 2011 un funzionario di polizia, Michael Sanguinetti, tenne una conferenza sulla sicurezza agli universitari di Toronto: “Sentite, qualcuno mi ha detto di non dirlo, e tuttavia, le donne dovrebbero smettere di vestirsi come troie (slut) per evitare di essere aggredite”. Le sue parole suonarono come la conferma del pregiudizio maschile per cui le donne stuprate sono sempre almeno corresponsabili della loro disgrazia. Ci fu una rivolta. Tremila persone tennero la piazza in aprile al motto: “Siamo tutte troie”. In maggio furono migliaia a Sydney e 2 mila a Boston. Gli slogan erano comuni: “La sola persona che puoi scopare quando vuoi sei tu”, “È una gonna, non un invito”, “Non dite a noi come vestire. Dite a loro di non stuprare”, “Sono una troia, ma non la tua”, “Look, don’t touch. This is a dress, not a yes”.
Holly Black (non è la scrittrice, lavora in un ospedale di Boston): “Vogliamo riappropriarci del termine troia, quando una troia è maltrattata o aggredita, non l’ha né desiderato, né meritato, e chi la aggredisce è almeno altrettanto colpevole che se avesse aggredito una non-troia. Lo stupro non è l’effetto di un desiderio sessuale, bensì un atto di violenza e di umiliazione. Lavoro al pronto soccorso e vedo arrivare vittime che non indossano minigonne ma jeans, jogging, pigiami, e perfino velate”. L’iniziativa si diffuse contagiosamente, con qualche problema di traduzione (il francese salope è più ambiguo):
Marche des salopes, Slut-walk, Marcha de las putas, o ancora das vadias, das vagabundas; “marcia delle charmoutot” a Gerusalemme. Erano cortei a volte di qualche decina, altre di centinaia e di migliaia di persone, donne e uomini, le donne prevalentemente in biancheria intima o abiti cosiddetti provocanti. A Londra sfilano in 5 mila, e un giorno dopo, il 12 giugno, a Edimburgo e a Brasilia, una delle città più colpite dagli stupri. Lima, Reykjavik (“la cultura dello stupro impregna anche l’Islanda”), Berlino, Cordoba… In India una diciannovenne che ha studiato in Canada, Umang Sabarwal, convoca a Nuova Delhi, la capitale delle violenze sessuali, una “marcia delle troie”, che dovrà rinviare e poi nominare diversamente, “marcia delle insolenti”, o “delle sfrontate”, rinunziando all’abbigliamento succinto, per le reazioni generali e anche di donne impegnate.
Il meccanismo di reazione è consueto, si prende l’accusa infamante e se ne fa una bandiera; nello slogan c’è anche una rivendicazione di libertà e gioia sessuale. Era successo dopo l’ignobile episodio Strauss-Kahn, “Siamo tutte cameriere d’albergo”. Dopo la nostra Lerici, a Carrara un gruppo di donne andò in chiesa in minigonna e
décolleté.
Da che mondo è mondo, controllare capigliatura e abbigliamento altrui (le reclute, per esempio, o i collegiali ecc.) e soprattutto delle donne, è la condizione decisiva del padronato maschile. La monaca di Monza sfidava i suoi padroni lasciando che una ciocca uscisse dal suo velo, come fanno le ragazze di Teheran, che i pasdaran assaltano e perquisiscono fin sotto il chador per accertare che non si siano truccate.
Dalle nostre parti, non si tratta solo né tanto degli immigrati poveri che arrivano coi loro costumi chiusi. Sono i ricchi che ci comprano, il Qatar, o che ci riforniscono, l’Arabia Saudita. Affaroni con dinastie che schiavizzano gli stranieri e tengono le donne prigioniere. Questa volta, sarà l’Internazionale di un ballo.

La Repubblica 13.02.13