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"Il vecchio paese degli spiccioli", di Barbara Spinelli

È un’Europa vecchia e svuotata, quella che ha visto i suoi leader accordarsi su un bilancio striminzito, figlio di dogmi rigoristi pieni di sonno, emanazione di un’Unione dove gli interessi degli Stati duellano senza produrre neanche l’ombra di un interesse generale. È un’Europa rattrappita («il mondo è divenuto così malvagio, che gli scriccioli predano dove le aquile non osano appollaiarsi», come in Shakespeare), e non a caso il rigetto nelle sue genti cresce. Il conciliabolo tra i finti suoi sovrani non poteva che finire così. Per la prima volta nella storia dell’Unione è prevista una diminuzione delle risorse comuni, come se la crisi semplicemente non ci fosse: un taglio di 34 miliardi di euro, rispetto al bilancio previsionale 2007-2013, e come tetto invalicabile meno dell’1 per cento della ricchezza prodotta. Questo chiedeva l’inglese Cameron, complice la Merkel e alcuni paesi nordici, e l’ha ottenuto: il Guardian registra il suo trionfo. Inutile tacciare di infantilismo chi, come Bersani, si adira. Le cifre parlano chiaro, i fatti hanno più forza delle propagande elettorali.
Sono cifre e fatti che hanno ormai una storia, una genealogia. Fino a quando l’Europa sarà una Confederazione di Stati abbarbicati a sovranità assolute (maschere utili in campagna elettorale, ma pur sempre maschere) le grandi scelte saranno intergovernative, dunque unanimi, e l’intesa difficilmente oserà vere scommesse sul futuro. La Confederazione, diceva Ernest Rossi, è fumo senza arrosto. Non è affare dottrinale, scegliere l’arrosto della Federazione. Se la crisi del debito ha lambito con tanta furia l’Unione e la sua moneta, dalla fine del 2009, è a causa di quest’architettura imprecisa, ignara dell’interesse generale, mantenuta in vita non solo da Stati potenti ma anche dai piccoli che esistono gonfiando le proprie taglie.
Cifre e fatti parlano da soli, per chi voglia esplorare le radici autentiche dei mali presenti. L’Europa non sta peggio degli Stati Uniti, né del Giappone. Se nella zona euro il debito inghiotte l’88 per cento della ricchezza prodotta, ben più alto è quello americano, giapponese: fino all’anno scorso, rispettivamente il 100% e il 226% del Pil. Ma nei due paesi non è in gioco, ogni volta, la vita o la morte della moneta, o della federazione, o dello Stato. In Europa invece sì, e questo vuol dire che la sua crisi è politica prima che economica. Dietro yen e dollaro ci sono Stati centrali che magari allarmano i mercati, ma non trasformano questi ultimi in padroni assoluti.
Dietro il dollaro, c’è un bilancio federale che copre il 22,8 per cento del Pil: capace non solo di annunciare ma di realizzare politiche di sostegno, in congiunzione con una Banca centrale sicura di avere di fronte a sé un interlocutore politico. L’1 per cento fissato come limite insormontabile nell’Unione, nessuno lo dice ma è una beffa. Non solo pesa pochissimo sui cittadini (si calcola che il costo è di 70 centesimi al giorno: più o meno un caffè al bar ogni mattina. Il 2 per cento reclamato dai più arditi costerebbe un caffè e cornetto). Neanche politicamente può funzionare, se permane il metodo, anch’esso datato, dei contributi versati dagli Stati: quando c’è crisi, è fatale che i negoziati degenerino nelle fiere della taccagneria che sono i vertici intergovernativi.
Occorre che l’Unione acquisisca un potere impositivo proprio, come Washington o Tokyo. Che l’Europa chieda direttamente al cittadino di finanziare l’avventura, perché solo in tal modo rende il secondo partecipe, e la prima appetibile e controllabile. È così che le democrazie nascono e diventano indipendenti, attive nel mondo: legando indissolubilmente tassazione e rappresentanza parlamentare. L’alternativa c’è e si chiama «giusto ritorno»: lo reclamò negli anni ’80 Margaret Thatcher, ed è oggi vizio ben condiviso.
Lo vediamo da anni: ogni capo di governo esige di ridurre i propri contributi o di ricevere in cambio giuste restituzioni, come se l’Europa non trascendesse mai la somma dei Ventisette. Quando il capo torna a casa dai conciliaboli ha in mano un trionfo personale, e un fallimento europeo. È il caso di Monti. Nella sostanza, venerdì, ha venduto per un piatto di lenticchie la linea più audace che pure gli era stata chiesta dal Parlamento: bloccare, minacciando il veto, un bilancio decurtato che condanna l’Europa all’irrilevanza. È per non perdere questo potere euforizzante ma sterile, che gli Stati s’ostinano a non affidare all’Unione poteri autonomi di imposizione: le tasse sulle transazioni finanziarie (Tobin tax) e l’imposta sulle emissioni di anidride carbonica (carbon tax), finita nei dimenticatoi nonostante l’effetto benefico che essa potrebbe avere su uno sviluppo diverso, meno inquinante per il clima.
Bastano le frasi ipocrite che suggellano i vertici (l’ultimo comunicato assicura che «il bilancio, guardando il futuro, ci farà uscire dalla crisi», e «dovrà essere un catalizzatore per la crescita e l’occupazione in tutta Europa») per svegliarci dal sonno dei dogmi. Merkel e Monti dicono che le elezioni nazionali non c’entrano, ma non è affatto vero. È per fingersi in patria sovrani possenti che difendono accordi fatti per screditare e abbassare l’Europa. Tra le righe fanno capire che un giorno si potranno correggere le cose: dopo le elezioni tedesche, comunque.
Ma i deputati europei hanno il potere e il diritto di reagire subito, e già lo fanno. Sorretti dal Presidente Martin Schulz, i capi dei principali gruppi del Parlamento (Daul del Ppe, il socialista Swoboda, il liberale Verhofstadt, i Verdi Cohn-Bendit e Harms) lo dicono in un comunicato: l’accordo «non rafforzerà ma indebolirà la competitività dell’economia europea, e non è nell’interesse prioritario dei cittadini europei». Non deve passare un «bilancio basato esclusivamente su priorità del passato», indifferente a promesse del futuro come ricerca, energie alternative, trasporti: «Non accetteremo un bilancio di austerità per sette anni».
Perché l’accordo sia bocciato dal Parlamento europeo, non c’è bisogno di aspettare le elezioni tedesche né una nuova Costituzione europea, anche se l’urgenza di quest’ultima è massima. Fin d’ora, la legge è inequivocabile: il bilancio pluriennale è deliberato all’unanimità dal Consiglio dei ministri «
previa approvazione del Parlamento europeo», prescrive l’articolo 312 del Trattato di Lisbona.
Questo significa che noi cittadini possiamo esigere dal nostro Parlamento a Strasburgo che voti contro l’accordo (e che nelle elezioni europee del 2014 dia battaglia sul bilancio). E possiamo chiedere ai governi di fare meglio quei «compiti a casa» che sono loro assegnati dai cittadini oltre che dalla Bce, e non concernono solo il rigore contabile casalingo ma gli investimenti dell’Unione e al contempo la sua visione d’un mondo in mutazione.
Non è detto che Schulz, meno coraggioso del previsto, abbia l’ardire di dire No. Vale la pena incalzarlo, e ricordargli l’appello personale che gli rivolse Helmut Schmidt, al congresso socialdemocratico del dicembre 2011: che promuovesse, appena eletto presidente dell’Assemblea, un’«insurrezione del Parlamento europeo» contro la sudditanza dei governi ai mercati. Essenzialmente, è quello che ha scritto su questo giornale Ulrich Beck, il 25 novembre 2012, sulla rabbia dei popoli contro l’Unione e le sue trojke. La questione sociale è diventata una questione non più nazionale ma europea, e «per il futuro sarà decisivo che questa convinzione si affermi. In effetti, se i movimenti di protesta prendessero a cuore l’imperativo cosmopolitico, cioè cooperassero in tutta Europa al di là delle frontiere e si impegnassero assieme non per meno Europa, ma per un’altra Europa, si creerebbe una nuova situazione ». Una situazione che Beck chiama Primavera europea.

La Repubblica 15.02.13