attualità, politica italiana

"La proposta rivoluzionaria di Hollande all'Europa", di Eugenio Scalfari

Riformisti o rivoluzionari? Questa domanda sta al centro del problema italiano ed europeo, ma può essere declinata in molti altri modi. Per esempio: socialisti o liberali? Progressisti o moderati? Di destra o di sinistra? Innovatori o conservatori? Sostenitori dei diritti o anche dei doveri? Spaccare la società in due è quasi sempre una semplificazione e semplificare i problemi complessi è quasi sempre un errore. Senza dire che bisogna analizzare con attenzione il significato delle parole. Se restiamo alla prima domanda che tutte le riassume, arriviamo alla conclusione che spesso una riforma fatta come le condizioni concrete richiedono può rappresentare una svolta radicale e quindi una rivoluzione; mentre accade altrettanto spesso che una rivoluzione che abbatta tutta l’architettura sociale preesistente spesso sbocca nel suo contrario, cioè in una dittatura.
Ma applichiamo questa griglia di domande all’Europa di oggi e all’Italia chiamando in soccorso anche qualche esperienza storica che possa aiutarci a capire il presente col ricordo di un passato analogo e quindi attuale.
La moneta unica europea è stata una riforma rivoluzionaria: ha reso impossibili le svalutazioni delle monete nazionali come strumento di competitività, ha unificato il tasso del cambio estero per una popolazione di oltre 300 milioni di persone, ha consentito un mercato libero per le persone, le merci e i capitali.
Un’altra riforma rivoluzionaria è stata quella del servizio sanitario nazionale. Un’altra ancora quella della scuola dell’obbligo. Una quarta il divieto di licenziamento senza giusta causa, una quinta il riconoscimento di pari diritti tra uomo e donna, una sesta quella delle pari opportunità e cioè della lotta contro le diseguaglianze nelle posizioni di partenza. Infine ultima della serie la tutela della libera concorrenza sul mercato degli scambi economici.
È pur vero che alcune di queste conquiste, tutte avvenute nel mezzo secolo trascorso dopo la fine della guerra, sono state in parte vanificate o deformate da interessi precostituiti che ne hanno impedito o limitato la piena realizzazione. Ed è altrettanto vero che nuove esigenze, nuovi bisogni e nuove tecnologie sono nel frattempo emersi rendendo necessari ulteriori mutamenti che spesso sono mancati. La necessità di una continua manutenzione e di mutamenti successivi è una dinamica indispensabile senza la quale le riforme effettuate si trasformano in uno stato di fatto che non progredisce ma invecchia. Il riformismo correttamente inteso coincide con l’innovazione, se diventa consuetudine cessa di esistere.
Purtroppo l’Europa e gli Stati che ne fanno parte versano in questa condizione. Il dinamismo delle riforme è cessato da almeno 20 anni e forse più. Perciò molti invocano la rivoluzione e rimproverano i riformisti di essersi addormentati. Ma che cos’è la rivoluzione quando è sganciata dal riformismo ed anzi gli si oppone?

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La rivoluzione che si oppone al riformismo di solito si ispira all’utopia. I rivoluzionari utopisti si propongono la distruzione dell’esistente, non il suo ammodernamento. Perciò usano il “senza se e senza ma” e dicono di no a tutto. Nove volte su dieci finiscono in una dittatura.
Nel suo libro appena uscito col titolo “E se noi domani — L’Italia e la sinistra che vorrei” Walter Veltroni ricorda e concorda su una frase che Piero Calamandrei pronunciò in un ampio discorso da lui tenuto all’Assemblea costituente il 5 settembre 1946. La frase è questa: «Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall’impossibilità di governare dei governi denato,
mocratici».
Veltroni ricorda anche che l’ultimo governo democratico governante fu quello dell’Ulivo presieduto da Romano Prodi dal ’96 al ’98. Dopo di allora i governi arrancarono e dal 2001 al novembre del 2011 furono gestiti dal populismo berlusconiano con la breve parentesi del biennio prodiano 2006-2008 che registrò il penoso spettacolo d’una coalizione che andava da Mastella a Bertinotti e un solo voto di maggioranza al Senato.
Per fortuna — aggiunge Veltroni — si susseguirono al Quirinale Scalfaro, Ciampi e Napolitano che sono stati i migliori presidenti della Repubblica che l’Italia abbia avuto ed hanno supplito alle terribili carenze del sistema.
Concordo pienamente con questi giudizi e con la necessità d’un profondo mutamento dei partiti e della società. Siamo percossi da una terribile crisi economica e sociale e in Italia ma anche in Europa da uno smarrimento della pubblica opinione. E siamo schiacciati da due populismi contrapposti e dalla crisi profonda del partito che ha la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e quella relativa al Se-
ma non è in grado di risollevarsi dalla crisi che l’ha
atterrato.
Quanto all’Europa, versa anch’essa in condizioni che dire drammatiche è dir poco: una marea di disoccupati, una recessione che ha colpito quasi tutti i Paesi che la compongono, una politica economica profondamente sbagliata, una politica bancaria in fase di stallo, una lentezza decisionale che aggrava i malanni e vanifica le incerte terapie.
Questa è la situazione. Ci sono speranze di riportarla
sulla giusta rotta?

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La speranza (lo dico con le parole di Calamandrei) è un governo che governi e che duri. Quello di Enrico Letta è nato per necessità e si regge su una maggioranza anomala e rissosa ma, allo stato dei fatti, senza alternative. Grillo non è un’alternativa e i suoi voti, quand’anche saltassero ancora in avanti (ma i sondaggi attuali lo danno al 23 per cento) da soli non bastano. Dal bacino elettorale di Berlusconi non succhia più, anzi sta avvenendo il contrario: è Berlusconi che si sta riprendendo i voti dei
delusi che erano emigrati dal Pdl verso l’astensione o verso Grillo.
I cinque stelle continuano invece ad affascinare i giovani di sinistra, i delusi del Pd, i sognatori della palingenesi, quelli che sono rimasti schifati dall’apparato chiuso e correntizio d’un partito che nel 2008 si era presentato come una sorta di partito d’azione moderno, aperto, che avrebbe dovuto plasmare una società civile forte e porsi al suo servizio.
Su questi delusi i cinque stelle esercitano la loro tentazione che però ha un punto debole: non esprimono nulla che sia di sinistra, né di quella tradizionale né di quella che pensa in termini di cultura moderna. Ce ne sono ancora nel Pd e molti, ma non pare che abbiano voce o almeno non abbastanza, capace di rovesciare gli equilibri malsani che ancora dominano quel partito.
Un Pd moderato non corrisponde alla sua genesi e soprattutto non riempirebbe alcun vuoto, al contrario ne aprirebbe uno a sinistra con conseguenze letali nel quadro italiano ed europeo.
Il Pd può avere, dovrebbe avere, i voti dei liberali, che non sono affatto moderati nel senso conservatore del termine. Nelle democrazie mature i liberali sono sempre stati alleati della sinistra riformatrice, è sempre stato così dovunque, in Inghilterra, in Usa, in Francia, in Germania, in Spagna. Ed anche in Italia, nei rari momenti di democrazia vincente. Rari, perché una parte rilevante di italiani non ama lo Stato, lo considera estraneo se non addirittura nemico e soggiace alle lusinghe della demagogia e del populismo. Predomina in loro un elemento anarcoide ed un’indifferenza verso la politica che porta inevitabilmente verso forme a volte nascoste e a volte palesi di dittatura.
Questo è il dramma italiano, un risvolto del quale, certamente non marginale, estende l’antipatia verso lo Stato nazionale ad un’analoga antipatia verso l’ipotesi di uno Stato europeo. Da questo punto di vista il populismo berlusconiano coincide con il populismo grillino: lo Stato italiano, per quel che poco che esiste, dev’essere raso al suolo e lo Stato federale europeo non deve nascere. Quel tanto che esiste dell’uno e dell’altro dev’essere completamente abbattuto. Poi, sulle loro ceneri, si potrà forse edificare il nuovo. Ma se li interroghi sul come distruggerli e come ricostruirli, riceverai come risposta una scrollata di spalle e un generico “si vedrà”.

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Non è così che si costruisce il futuro dell’Europa e quello dell’Italia che le è strettamente legato. Da questo punto di vista giovedì scorso è avvenuto un fatto nuovo di straordinaria importanza: il presidente francese Hollande per la prima volta nella storia politica della Francia ha abbandonato la posizione tradizionale del suo paese di scetticismo e di ostile distacco verso un’Europa federata ed ha chiesto in modo perentorio la nascita entro il 2015 d’un governo unitario europeo con un bilancio comune, un debito pubblico sovrano comune, una politica economica, estera e di difesa comuni, un sistema bancario ed una Banca centrale con i poteri di tutte le Banche centrali dei paesi sovrani.
Non era mai accaduto prima, la Francia era anzi vista come un ostacolo insuperabile a questa evoluzione, imposta ormai dall’esistenza d’una società mondiale globale. Il progetto di Hollande prevede anche l’elezione del presidente dell’Europa col voto diretto dell’intero popolo europeo.
Il governo spagnolo si è già dichiarato pronto a sostenere la proposta francese. Il nostro presidente del Consiglio Enrico Letta aveva anch’egli sostenuto per primo questa necessità ma non aveva fissato date. Hollande ha rotto gli indugi: due anni di tempo e se gli altri paesi europei (la Germania soprattutto perché a lei è rivolto il messaggio di Hollande) non saranno d’accordo, la Francia andrà avanti con chi ci sta.
I partiti italiani finora non si sono fatti sentire; i giornali hanno riportato la notizia ma senza rilevarne la novità e la fondamentale importanza. Questa sì, sarebbe una rivoluzione: un governo ed un presidente eletto di uno Stato europeo fra due anni. Le elezioni tedesche che avranno luogo in autunno dovranno cimentarsi soprattutto su questo tema e così pure quelle italiane quando avverranno e le elezioni europee che si svolgeranno interamente su questi temi. La messa in comune dei debiti sovrani nazionali fu, non a caso, il primo passo della Confederazione americana verso la Federazione.
Il futuro si può costruire soltanto così e soltanto così può rinascere la speranza nel cuore degli europei e degli italiani.

La Repubblica 19.05.13