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"Tutte le strade portano a scuola", di Marco Lodoli

Il tragitto tra casa e scuola, cento metri o chilometri, in una città tranquilla o in un paesaggio difficile, per ogni ragazzino è comunque un viaggio meraviglioso. Noi italiani siamo purtroppo spaventati da tutto, vediamo a ogni angolo siringhe e pedofili, temiamo la furia delle macchine e i rapimenti, la nostra immaginazione si è distorta e le preoccupazioni hanno spazzato via ogni fiducia, così imbacucchiamo i nostri figli, portiamo giù per le scale del palazzo i loro zaini perché sono troppo pesanti, e poi quasi sempre si sale in macchina per fare prima, perché è sempre tardi, perché quel viaggio è un puro e semplice spostamento. Pensiamo che in ogni bambino c’è un Pinocchio, pronto a deviare dal suo tragitto obbligato verso scuola e a imboccare le traverse oscure del rischio, della disobbedienza, della catastrofe. Così facendo, neghiamo ai nostri figli un’esperienza formativa, quel senso di libertà che educa lo sguardo, il ritmo dei passi, la responsabilità. Eppure il bambino sa che deve andare a scuola, lo sa e in fondo gli piace, quello è il suo posto, lì ci sono gli amici, le maestre, il cortile, i libri su cui imparare cose nuove. In tutto il mondo ogni mattina milioni di bambini compiono quel viaggio, traversano il bosco incantato della realtà, si rinforzano sulla strada.
Queste fotografie raccontano bene la bellezza e la volontà, il desiderio di diventare grande che ogni scolaro ha dentro di sé. La casa è la protezione assoluta, a scuola ci sono regole precise, banchi e lavagne, orari e compiti: in mezzo c’è un percorso obbligato eppure libero, una sequenza di rettilinei e di svolte, di abitudini e piccole sorprese che sono già un insegnamento. Ai miei studenti romani del primo anno faccio sempre scrivere un componimento su quella minima odissea quotidiana, da Tor Bella Monaca o da Giardinetti o da Torre Gaia fino all’edificio scolastico di via Olina, a Torre Maura. Sono chilometri macinati su autobus affollatissimi, tramvetti, e poi a piedi, dall’ultima fermata fino alla classe, sono pagine e pagine di un diario interiore, è un ago che traversa un pagliaio. «Professore, ma è sempre la stessa cosa — mi rispondono —. Tutti i giorni è la solita fatica, non c’è niente da raccontare». Io però insisto, so che ogni giorno è diverso dall’altro, che quel viaggio è già un viaggio di conoscenza del mondo e di se stessi. E così gli studenti iniziano a prestare più attenzione a quanto accade sull’autobus, alle immagini che si srotolano fuori dal finestrino, agli incontri occasionali, ai pensieri che piovono insieme alla pioggia e al sole. Sono resoconti bellissimi, cronache che valgono quanto quelle dei grandi viaggiatori, di Marco Polo o Chatwin. C’è la fatica dell’andare ma anche la determinazione di raggiungere la meta, perché nonostante gli sbuffi e le proteste ogni bambino sa che la scuola è la fabbrica di una vita migliore, che vale sempre la pena partire per arrivare fino a qui. La casa è un laghetto, la scuola è il mare: in mezzo scorre il fiume del viaggio.
Come nelle favole, ogni mezzo è buono per raggiungere il castello, perché in fondo è la voglia di arrivare il vero motore: in queste fotografie vediamo bambini dell’Alaska che vanno a scuola con la motoslitta, zingari che in Francia prendono la metro, studenti thailandesi in risciò e brasiliani sul mulo, e bambini africani che coprono a piedi lunghe distanze. Il peso dei libri paradossalmente alleggerisce il viaggio, sono ali che rendono più lieve il cammino.
In Italia il problema dell’abbandono scolastico è terrificante soprattutto nelle zone più depresse economicamente: quante volte mi è capitato di provare a convincere studenti disamorati, avviliti, demotivati, di spiegare loro che la scuola è la possibilità più grande che hanno per trasformare la vita. E spesso questi ragazzini mi hanno risposto che alzarsi la mattina alle sei o alle cinque e mezza, per lavarsi, vestirsi e poi affrontare un viaggio fatto di mezzi pubblici che non arrivano, e che quando arrivano sono stracarichi di persone, e poi di chilometri a piedi, di ansie e ritardi, è una impresa insopportabile. E allora io cerco di rigirare la frittata: ogni fatica rafforza, ogni sacrificio prepara un futuro migliore, ogni autobus scassato e stracolmo può contenere una scoperta. Sono discorsi da professore, che non sempre riescono a persuadere. Contano di più la mia Vespa scassata e i venti chilometri che anche io ogni mattina mi cibo per raggiungere la scuola. Sono fatti, non chiacchiere vuote. Pioggia, tempesta o solleone, io parto e arrivo, la strada è sempre la stessa, ma il viaggio cambia ogni mattina. Mi piace traversare la città, lasciare il mio quartiere e trovarne un altro, lontano. Mi piace il baretto in cui mi fermo per un caffè, l’edicola dove compro il giornale. Il mondo si schiude attorno a un percorso, questo i ragazzi lo capiscono e lo apprezzano. E qualcuno allora mi dice: «Va bene, professò, domani ci riprovo, domani vediamo se ce la faccio a venire a scuola».

La Repubblica 19.05.13

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