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"Un anno d’inferno ma l’Emilia è rinata", di Gigi Marcucci

Un anno dopo, ma ancora per pochi giorni, l’ufficio del sindaco è sempre nel minuscolo gabinetto di un asilo nido, dove due piccolissimi water-closet sono stati per decoro coperti con scatole di cartone. Il consiglio comunale si riunisce invece in una «ludo-tenda», d’inverno riscaldata con soldi arrivati dal Canada. Dodici mesi sono trascorsi dalla prima scossa, quella che divorò centri storici e si portò via fabbriche e le vite di molti operai tra Modena e Ferrara. Ma quello di Luisa Turci, sindaco di Novi, non è un lamento che si innalza da Cratere, come fu ribattezzata questa porzione di Emilia devastata dal terremoto. Semmai è una riflessione. «Il tempo è un nostro alleato, una fonte inesauribile di opportunità», dice il sindaco. Qui nessuno ha mai parlato di new town, cattedrali da costruire nella voragine, e poi magari da sgomberare perché edificate con materiali di scarto. Roba buona al massimo per qualche campagna elettorale. L’imperativo è recuperare, secondo una scala di priorità: prima i servizi e le scuole, ora ricavate in edifici temporanei, e un tetto per tutti. Si è cominciato con la riparazione dei danni lievi, si continua con quelli più gravi. E si difendono i centri storici, depositari di un’identità collettiva. Un passo dopo l’altro, come in un’ascensione alpinistica. Così anche Novi, da giugno, avrà il suo Comune provvisorio. Ci saranno scuole nuove, anche nella frazione di Rovereto: i progetti esecutivi ci sono già, la prossima tappa è l’apertura dei cantieri. Una palestra è già pronta: costruita prima del sisma, ha retto a sventole del quinto grado della scala Richter, quindi è stata anche sottoposta a test. Hanno riaperto gli ospedali vicini. Chi si sente male a Novi, ad esempio, può andare a Carpi.

La prima volta che parlò con l’Unità, Luisa Turci chiese tempo. Aveva appena saputo che la casa della sua famiglia sarebbe stata abbattuta. Aveva bisogno di piangere, disse. «È stata demolita l’8 marzo, ora viviamo in affitto e progettiamo di ricostruirla», racconta col tono di chi, seppur costretto, ha già voltato pagina. «Il mio vantaggio da sindaco», spiega, «è di non avere mai avuto tempo per pensare a me. Il disastro era di tali proporzioni da costringermi ad accantonare i miei problemi. La mia famiglia ha sofferto, ma ha capito e pagato il conto». Il secondo mandato del sindaco Luisa Turci era cominciato il 7 maggio 2012, il 19 si era insediata. Sette ore dopo cominciava un’altra vita.

Decisioni da prendere nel giro di poche ore e subito dopo programmi per i prossimi cinque anni, perché la ricostruzione, spiegano qui, deve essere partecipata. «In due ore ho dovuto scegliere le sedi dei campi tenda, in 8 giorni ho trasferire il Comune nella biblioteca, istituire un numero verde per 24 giorni restò attivo 24 ore su 24, attrezzare parcheggi con gabinetti chimici perché, soprattutto dopo la seconda scossa, nessuno si azzardava più a dormire in casa», racconta Piero Lodi, sindaco di Cento, città di 36mila tra le province di Bologna e Ferrara. A mezzogiorno del primo giorno furono preparati duemila pasti. «Il mio ufficio era in piazza e in auto, perché la scossa del 20 aveva colpito duro soprattutto nelle frazioni a nord. Ora lavoro nella sala “3” di un teatro tenda, quella dove i musicisti fanno le prove con la batteria». Lodi non vuole fare propaganda e nemmeno comparazioni, ma conferma la scelta del modello emiliano anche per l’emergenza. Una catena di comando molto corta. A un capo il presidente della Regione Vasco Errani, Commissario per il terremoto, dall’altra i sindaci. «Per noi Errani era sempre raggiungibile al telefono, ai rapporti col governo ci pensava lui. Non poteva che funzionare così. Era un mosaico in cui nessuna tessera era più grande dell’altra», spiega il sidaco. «La prova la ebbi quando arrivarono i professionisti inviati dal Dipartimento nazionale della protezione civile. Persone preparatissime, ma senza conoscenza del territorio. Il loro lavoro doveva essere accompagnato tenendo conto del sentimento della gente. Per esempio nel decidere cosa andava abbattuto e cosa no».

Non è un lavoro che si vede subito. A Cento come nel resto del Cratere si è lavorato molto sulle fondamenta, spiega Lodi, e non è facilissimo immaginare che lì sopra ci sarà una casa. Non ci sono fabbricati nuovi di zecca da mostrare in televisione, ma centri storici che verranno messi in piedi blocco dopo blocco. «Ci vorranno, se siamo molto veloci, tre o quattro anni», dice Claudio Broglia, già sindaca di Crevalcore, oggi parlamentare del Pd, che come i suoi colleghi si è ritrovato nel giro di una notte con un paese da ricostruire. Su 900 abitazioni inagibili, circa 300 sono state riparate, per altrettante sono stati fatti lavori che garantiscono la «fruibilità in attesa di agibilità»: formula poco digeribile, ma significa che chi ci viveva prima del terremoto ha potuto ritornarci. Nel centro storico è finito il recupero di un intero blocco, oggi verrà inaugurata una nuova chiesa ed è prossima l’apertura di un auditorium polivalente. «A differenza dell’Abruzzo, qui ha contato il coinvolgimento delle amministrazioni locali. Lì i sindaci, certo non per loro demeriti o responsabilità ma per una precisa scelta del governo di centrodestra, furono tagliati fuori. Qui sono protagonisti della ricostruzione. E i danni, tolti il centro storico aquilano e le perdite in vite umane, qui sono stati anche più rilevanti ed estesi».

L’Unità 19.05.13

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“E gli esami si preparano nella scuola con le molle” di Giulia Gentile

Federico sorseggia il suo caffè al bar del nuovo polo scolastico, nei prefabbricati costruiti alla velocità della luce in via 29 maggio. Spalancato sul tavolino davanti a sé, un quotidiano locale racconta com’è cambiata la sua Mirandola, e l’intera «bassa» modenese, a un anno dalle scosse di terremoto che portarono morte e distruzione fra le province di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia.

Domani sarà l’anniversario della prima scossa, quando migliaia di Emiliani scapparono di casa nel cuore della notte con la terra che tremava sotto i piedi. Poi fu la volta della «botta» più vigliacca, nove giorni dopo, quando già le fabbriche, le case, i centri storici, tornavano a ripopolarsi, alle 9 di un martedì mattina. «Siamo stati tre mesi sfollati dai parenti in Lombardia – racconta il ragazzo appena prima di infilarsi in aula -. Poi, per fortuna, la nostra casa nel centro storico è stata dichiarata agibile e siamo rientrati. Qualche lavoro è stato indispensabile, ma per fare quelli più grossi i miei genitori stanno ancora cercando di capire se, e quando, i fondi per i danni arriveranno».

La giornata grigia non migliora l’aspetto malinconico del complesso di prefabbricati grigi e blu, che ospita 1100 studenti, fra liceo classico e linguistico “Pico”, e istituto tecnico e professionale per il commercio “Luosi” e “Cattaneo”. Unici tocchi di colore, a partire dal neon azzurro e dalla scritta rossa su un tetto “Insegna”, quelli portati fra le neonate strade del polo scolastico dal professore d’Arte, Anteo Radovan. «Questo posto non ha storia, non ha anima – sospira -. Abbiamo cercato, allora, di dargliene una chiamando artisti contemporanei con i loro progetti». E così sono arrivate le insegne del Profesùr, i «sigilli» di Cuoghi Corsello che contengono le aspirazioni segrete di alcune studentesse, disegni colorati sull’asfalto composti da alcune lettere del desiderio espresso, e i ritratti di Eva Marisaldi (purtroppo tolti per ragioni di sicurezza) che riproducevano gli studenti nell’atto di saltare, come in un esperimento per simulare il terremoto. «Delle volte speriamo che arrivi un’altra scossa ad impedirci di fare gli esami – scherza ancora Federico, che a breve dovrà affrontare la maturità -, ma queste nuove strutture hanno le molle sotto: mi sa che nulla ci impedirà di studiare. E se l’anno scorso i professori erano stati buoni causa sisma, quest’anno magari saranno anche severi». Geogiana ha invece davanti un altro anno al Luosi, prima di diplomarsi. «Grazie al cielo non abbiamo avuto problemi con la casa – sorride -, e anche qui non si sta male». Negli occhi suoi, e dei suoi coetanei, lo sguardo adolescente di chi vive ogni giorno scosse emotive, e forse anche per questo vuole prima degli adulti mettersi la storia del sisma alle spalle, una volta per tutte. Cecilia Severi, psicologa che lavora fra gli stretti corridoi delle casette prefabbricate, parla di un trauma elaborato bene anche grazie alle «tante occasioni» offerte per parlarne, e per andare avanti, proprio dalla scuola. «Certe paure, certe ansie tornano ancora fuori – racconta, ma la loro volontà principale è quella di non tornare in- dietro. Di non parlarne più».

Più dura allora, forse, è per i «grandi» della scuola. Insegnanti e collaboratori scolastici che hanno lavorato per una vita nelle sedi storiche degli istituti superiori, nell’ex convento dei Francescani dove ha sempre avuto casa il liceo classico, oggi transennato perché accanto alla chiesa di San Francesco completamente diroccata. Negli immobili, poco lontani a via 29 maggio, della vecchia ragioneria e dell’istituto professionale per il commercio. «In centro non torneremo più – dice chiaro il preside, Giorgio Siena -, non si potrà più tornare. Quella è una storia finita. Ma tutto sommato, qui stiamo bene ed in totale sicurezza». In un anno e mezzo, prevede il dirigente scolastico, il polo commerciale potrà rientrare nel restaurato stabile in muratura. Mentre il polo linguistico si trasferirà nel prefabbricato che ora ospita il tecnico commerciale. Almeno fino al 2016. «La Regione e gli altri enti locali hanno dato priorità assoluta alle scuole nel piano di ricostruzione – chiosa Siena -. Siamo stati più aiutati degli altri, ed ora sentiamo di dover essere autorevoli e responsabili». Soprattutto i docenti del “Pico”, però, ancora si commuovono pensando alla vecchia sede, al patrimonio culturale che portava con sé, al chiostro con il giardino dove affacciavano le finestre.

La mattina del 29 maggio Gabriella, collaboratrice scolastica, era entrata con altri nella vecchia sede dell’ex ragioneria. Servivano documenti e registri per preparare gli esa- mi, e per far continuare le lezioni. E tutti pensavano che il peggio fosse ormai alle spalle. «Siamo scappati fuori – si commuove -, ma è andata bene. Qui hanno rimediato bene e in poco tempo. E io sono di nuovo in casa mia. Ma tante colleghe sono ancora in affitto, in attesa di rientrare».

L’Unità 19.05.13