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Fenomenologia del “renzismo”, di Ilvo Diamanti

Matteo Renzi non si nasconde. Ma non si espone. In questo periodo, è ben visibile. Ma preferisce non “scendere in campo” direttamente. Al Salone del libro di Torino, ieri, ha espresso l’intenzione di andare “Oltre la rottamazione” (titolo del suo libro, pubblicato da Mondadori). Perché si tratta di uno slogan efficace, ma che, al tempo stesso, fa paura. Visto che, osserva Renzi, oggi, in Italia, “il 70% della popolazione è over 40”. Così, il sindaco di Firenze oggi frena sulla “questione generazionale”, sulla frattura fra vecchio e nuovo, in politica e nella società. Su cui aveva impostato la sua offerta politica, fino alle primarie. Quando aveva ottenuto un risultato rilevante, ma non sufficiente a vincere.
ANZI: lontano da quello ottenuto da Bersani. Anche per questo appare prudente. E, per la successione di Bersani, come futuro segretario del PD, preferisce lanciare la candidatura dell’ex-sindaco di Torino, Sergio Chiamparino.
Resta coperto, Renzi. Teme, ancora, di vincere la competizione dell’audience e di perdere quella politica. Di risultare il candidato preferito “fuori”, più ancora che “dentro” il partito. Come nelle precedenti primarie del PD. Così attende. Di rientrare direttamente in gioco quando si tratterà di scegliere non il futuro segretario, ma il candidato Premier. D’altronde, nell’opinione pubblica continuano ad emergere, nei suoi confronti, orientamenti molto favorevoli. Nell’Atlante Politico di Demos, infatti, il 64% degli elettori valuta positivamente la sua azione politica (con un voto pari o superiore al 6). Primo fra i leader. Avvicinato, a breve distanza, dall’attuale
Premier, Enrico Letta. Anch’egli giovane, ma di certo meno polemico verso il ceto politico (non solo del PD). Favorito dall’incarico di governo, sostenuto da intese molto larghe.
Ciò che colpisce, tuttavia, è la trasversalità del consenso. Anzitutto, sotto il profilo dell’età. È, infatti, evidente come il richiamo alla “rottamazione” non abbia preoccupato gli elettori più anziani. Fra i quali, al contrario, il sindaco di Firenze ottiene il gradimento più elevato (oltre i 65 anni sfiora il 70%). Inoltre, è interessante osservare come egli riesca a sfondare il “confine padano”, visto che ottiene il sostegno maggiore (oltre il 70%) proprio nel Nord. Mentre è più debole nel Mezzogiorno (58%). Renzi: gode dei livelli di consenso più elevati fra gli studenti e i pensionati. Fra gli impiegati pubblici. Fra i cattolici praticanti. Mentre è (un po’) meno sostenuto dagli operai, dai liberi professionisti, dagli imprenditori. Dalle persone con un basso livello di pratica religiosa. Ma il maggior grado di trasversalità dei consensi nei suoi riguardi emerge in rapporto agli orientamenti di voto. Renzi, infatti, ottiene un giudizio positivo dal 77% degli elettori del PD, ma da oltre l’86% di quelli di Scelta Civica e dell’UdC. È, comunque, molto apprezzato anche dagli elettori di Centrodestra. Dal 70% dei leghisti, da oltre i due terzi della base del PdL. Mentre il suo consenso cala fra gli elettori di SEL e degli altri partiti di Sinistra — anche se si avvicina al 60%. I livelli più bassi di sostegno, nei suoi confronti, si osservano, però, nella base elettorale del M5S e nella zona grigia dell’astensione e dell’indecisione. Anche qui, comunque, egli dispone di un gradimento maggioritario, superiore al 50%.
Renzi, dunque, piace a tutte le principali componenti dell’elettorato. E appare in grado, soprattutto, di superare i tradizionali limiti espressi dal PD. In particolare, sul piano territoriale. Nonostante sia sindaco di Firenze, infatti, Renzi non sembra un leader della “Lega
di Centro” — per citare la formula usata da Marc Lazar per definire i DS (e valida anche per il PD, fino alle ultime elezioni). Sicuramente, non subisce il pregiudizio anticomunista, che ha vincolato la crescita del PD, come dello stesso Ulivo. Renzi, al contrario, piace agli elettori di Centro, e perfino di Destra, più ancora che a quelli di Sinistra. Non è un caso che, anche fra i possibili segretari del partito, egli sia decisamente il preferito dagli elettori del PD. Ma perda consensi tra quelli di SEL e della Sinistra (a favore di Barca e di Civati).
Il profilo politico e sociale del consenso a Renzi, dunque, ne sottolinea le ragioni di forza. Ma ne suggerisce anche i possibili limiti. Che in parte coincidono.
Renzi, infatti, si sottrae alla tradizionale frattura fra destra e sinistra. E impone, invece, la questione generazionale, legata al rinnovamento politico. In questo modo, intercetta l’insoddisfazione — diffusa — verso le istituzioni e i gruppi dirigenti di partito. Ponendosi in concorrenza con Grillo e il M5S. Infine, il sindaco di Firenze è tra i più abili nell’impugnare le armi del berlusconismo: la personalizzazione e la comunicazione. Non a caso proprio Berlusconi, come ha ribadito Renzi, anche ieri, ha bloccato la sua candidatura alla guida del governo.
Insomma, Renzi piace un po’ a tutti. E questo potrebbe diventare un problema, oltre che un vantaggio. Le stesse basi del suo consenso, inoltre, potrebbero costituire una minaccia, oltre che una risorsa. Renzi, in particolare,
rischia di non ancorarsi alle “questioni” e alle “fratture” sociali. Di cui la distinzione fra destra e sinistra è uno specchio. Rischia, dunque, di non dare rappresentanza adeguata ai problemi e alle domande delle principali componenti del mercato del lavoro. Che, in una fase drammatica come questa, si sono rivolte, non a caso, soprattutto al M5S. Infine, non è chiaro a quale alternativa guardi, rispetto al “partito personale” “mediale” e delle “ nomenclature”, distante dalla società e dal territorio. E oggi dominante.
Anche per questo, probabilmente, Matteo Renzi preferisce “restare fuori” dalle scelte — e dalle polemiche — che riguardano il partito e il governo. In attesa che i tempi maturino — e logorino i suoi concorrenti. (Bersani, che lo aveva battuto alle primarie, si è già “consumato”.) Tuttavia Renzi, in questi tempi crudi, rischia. Se non spiega cosa ci sia “oltre la rottamazione”. Quali priorità. E quali parole. Se non spiega: come sia possibile imporle. E, soprattutto, cambiare il PD da fuori. Senza conquistarne la guida. Renzi rischia, altrimenti, di arrivare anch’egli logoro. Alla guida di un partito logoro.

La Repubblica 20.05.13