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"Un giovane su 4 senza posto nè scuola", di Chiara Saraceno

I dati sono del 2012 e riguardano la popolazione italiana dai 14 anni: la percentuale del 36% registra una discesa vertiginosa, stante che un anno prima era del 45,8%, ed è dovuta pressoché esclusivamente alla diminuzione di chi è molto (o anche solo abbastanza) soddisfatto delle proprie condizioni economiche.
È quanto emerge dal rapporto annuale 2013 dell’Istat. Per altro, va osservato che è dal 2001, quindi da prima della crisi, che la soddisfazione per le proprie condizioni economiche è in diminuzione, al contrario di quanto avviene per altri aspetti della vita (salute, relazioni famigliari e amicali, tempo libero) che invece rimangono stabili o in aumento. In particolare e un po’ contro-intuitivamente, è aumentata la soddisfazione per le relazioni famigliari. Quasi che la maggiore dipendenza dalla solidarietà famigliare sperimentata da molti, specie i più giovani, la necessità di serrare le file e di condividere risorse e sacrifici, lungi dall’accentuare le tensioni in famiglia, le abbia viceversa ridotte.
Questa tenuta delle relazioni famigliari è indubbiamente un dato positivo. Ma non si può ignorare che non tutti hanno una famiglia che funziona ed è solidale, o che, pur essendo solidale, ha le risorse necessarie per esserlo efficacemente. Inoltre, poter contare solo sulla propria famiglia presenta molti vincoli alla autonomia individuale, oltre ad essere una delle cause della intensità
della riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze nel nostro Paese.
Nel generale fenomeno di una diminuzione della soddisfazione per le proprie condizioni economiche, rimangono e si acuiscono le differenze territoriali, in relazione sia alle diverse condizioni di partenza antecedenti la crisi, sia alla diversa incidenza della stessa, in termini di perdita di occupazione. È avvenuto, infatti, a livello territoriale quanto è avvenuto a livello di famiglie e di singoli: le condizioni economiche sono peggiorate per le regioni più povere e per gli individui più poveri. Non è un caso, quindi, che siano gli operai non solo ad esprimere maggiore insoddisfazione per le proprie condizioni economiche, ma a manifestare il calo maggiore tra i soddisfatti: sono loro ad aver sperimentato in maggior misura la perdita o la riduzione dell’occupazione e quindi anche del reddito e a vivere con più ansia la propria vulnerabilità sul mercato del lavoro.
L’insoddisfazione per le condizioni economiche diviene anche sfiducia rispetto al futuro prossimo, proprio e del Paese nel suo insieme. Una percentuale crescente di persone ritiene che non ce la farà a mantenere il livello di consumi, per altro già ridotto nell’ultimo periodo, cui è abituata e che ritiene indispensabile per il proprio sentimento di adeguatezza. E quanto più si è pessimisti rispetto a sé, tanto più lo si è anche rispetto alla tenuta economica del Paese. Si innesta così un circolo vizioso non solo sul piano pratico – se diminuiscono i consumi si indeboliscono anche le aziende che producono quei beni e diminuisce l’occupazione – ma anche su quello del clima culturale e politico complessivo.
Per fortuna, nonostante siano tra le categorie più colpite dalla crisi, i più ottimisti sono proprio i giovani fino a 34 anni, che hanno un orizzonte temporale più lungo davanti a sé. Gli ottimisti diventano tuttavia meno di un terzo tra chi ha i 35-44 anni, per diminuire ulteriormente nelle fasce di età successive. Ciò conferma che è giusto e opportuno investire nel miglioramento delle opportunità dei più giovani, per impedire che perdano la speranza, o per farla riacquistare a quelli che sembrano aver già gettato la spugna, ingrossando l’impressionante esercito dei Neet, i giovani — uno su quattro — che né lavorano né studiano. Ma occorre anche guardare con preoccupazione alla sfiducia e al pessimismo di chi è oggi nelle età centrali e non vede nessuna prospettiva di miglioramento. Anche perché sono loro a fronteggiare il peso dei bisogni insoddisfatti dei più giovani e dei più vecchi e della preoccupazione, non solo per il proprio futuro, ma anche per quello dei loro figli.

La Repubblica 23.05.13