attualità, politica italiana

"Il peccato originale", di Piero Ignazi

Partiamo da una premessa: in tutti i paesi europei ad eccezione della Svizzera vi sono forme di finanziamento pubblico ai partiti.
Eliminandolo del tutto, come viene ora ventilato dal progetto governativo, ancora una volta faremmo eccezione rispetto alle altre democrazie europee. Questo furore iconoclasta contro i contributi pubblici si può ben capire perché l’Italia, fino allo scorso anno faceva — di nuovo – eccezione per l’ammontare gigantesco di denaro pubblico dirottato verso i partiti. Dal 1994 al 2013 sono stati elargiti quasi due miliardi e mezzo di rimborsi elettorali per ogni tipo di competizione, dalle regionali alle europee passando per le legislative (e in questo calcolo sono esclusi i contributi per i comitati organizzatori dei referendum).
Anche al di là delle malversazioni e ruberie l’opinione pubblica non sopporta più di vedere i politici – di ogni livello – godere di retribuzioni e benefit inarrivabili per la maggioranza dei cittadini onesti. Questo sentimento di discredito, tracimato fino all’ostilità, ha beneficato il M5S. Ma la rincorsa al giacobinismo antipartitico non taglia l’erba sotto i piedi al movimento di Beppe Grillo perché la disistima nei confronti dei partiti è ben radicata; e non cambia da un momento all’altro solo perché si tolgono loro i soldi. La ri-legittimazione dei partiti passa per una ripresa di attività volontaria, magari intermittente ma incarnata da persone “disinteressate”, o quanto meno senza i privilegi derivanti dalla loro attività politica o carica pubblica.
I partiti a livello locale, “ambasciatori” della società civile presso i decision-makers, vivono una condizione di marginalità e sudditanza rispetto ai vertici nazionali. Mentre a Roma le strutture centrali sono opulente perché lì arriva il finanziamento pubblico, in periferia stentano, perché lì arrivano solo le briciole. Addirittura in alcuni casi, come nel Pdl, anche i proventi derivanti dalle iscrizioni vengono risucchiati dal centro. La concentrazione delle risorse nei quartieri generali dei partiti ha isterilito la loro vita alla base. Ne consegue che, da molti anni, la quota di finanziamento pubblico supera nettamente quella autoprodotta: Pdl e Pd dipendono dal 70% al 90% dai contributi dello Stato.
Comunque, passare dall’abbondanza senza limiti e totale irresponsabilità all’abbattimento di ogni forma di sovvenzione pubblica è rispondere ad un eccesso con un altro. Invece di cancellare del tutto il finanziamento, peraltro già dimagrito e modificato con una nuova legge, approvata nel luglio dell’anno scorso ma passata del tutto inosservata, travolta dallo tsunami antipartitico, meglio sarebbe prendere spunto dalle buone pratiche adottate all’estero. E, in particolare, concentrarsi sulla triade virtuosa della limitazione degli importi di entrata e di spesa, dell’efficacia dei controlli, del rigore nelle sanzioni.
I versamenti dello Stato sono già stati ridotti dalla legge del 2012 a 91 milioni l’anno, di cui un terzo co-finanziato sulla base di quanto i partiti autonomamente raccolgono. 91 milioni sono ancora molti, forse troppi. Ma certo troppo bassa è la quota di autofinanziamento: il rapporto 30/70 va invertito. Per avere soldi dallo Stato i partiti devono dimostrare di essere in grado di attivare una massa importante di contributi (ovviamente certificati, pubblici e di piccoli importi). A fianco della riduzione degli importi e della loro modulazione in rapporto ai contributi pubblici va poi introdotto un tetto alle spese. Fin qui i partiti hanno guadagnato grazie alla generosità dei rimborsi, e i bilanci sono in molti casi attivi; ma riducendo le entrate vanno tenute a freno le spese, con plafond ben definiti.
I controlli, anche nell’ultima norma, sono soprattutto formali e nelle mani dei controllori-controllati, con un intervento non ben definito – e quindi inefficace – della Corte dei Conti. Società esterne di auditing e indicazioni precise sull’intervento dei giudici, nonché una ampia pubblicità dei bilanci, rappresentano alcuni passaggi minimi per una maggiore efficacia nei controlli.
Infine, le sanzioni. Fin qui, al di là dei casi clamorosi alla Belsito, l’opacità dei bilanci ha nascosto di tutto e non ha consentito che venissero individuati responsabili di abusi e
malpractice.
La decadenza dall’incarico per quel candidato che sforasse il tetto di spesa, ad esempio, costituirebbe un deterrente importante.
I soldi in politica sono ad alto rischio e inducono in molte tentazioni. Ma non vanno demonizzati. Vanno limitati e controllati. Con un intervento dello Stato, severo e calmierante allo stesso tempo.

La Repubblica 25.05.13