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"L’ultimo atto dei teatri lirici", di Luca Dal Fra

Sono parecchie le grane che Massimo Bray ha trovato sulla sua scrivania di Ministro per i beni e le attività culturali: forse la più appassionante riguarda la musica nel nostro Paese. In tutto il mondo l’opera parla italiano, grazie a uno straordinario repertorio lasciatoci dai nostri compositori che sta conquistando sempre nuovo pubblico dall’Asia al Sudamerica all’Africa e perfino in Europa -, ma in Italia il melodramma vive la stagione più triste della sua storia, d’altronde insieme alla musica sinfonica e da camera vessate da iniqui e inutili provvedimenti varati dal Governo Monti.
Se nei giorni scorsi hanno fatto scalpore i lavoratori delle librerie Feltrinelli che per evitare i licenziamenti abbiano scelto la cassa integrazione di solidarietà, non tutti sanno che la cosa avviene da anni nelle Fondazioni lirico-sinfoniche, i nostri maggiori teatri lirici. C’è poi la crisi endemica che attraversiamo, con oltre 10 anni di continui tagli agli investimenti pubblici del settore; su tutto pesa la Legge 100/2010, la cosiddetta riforma Bondi, che nei discorsi di quell’ineffabile ministro avrebbe dovuto «salvare la lirica» e invece la sta affondando. Per non parlare dei cosiddetti contributi salvifici dei privati alla cultura, che dal 2005 al 2011 per le 14 Fondazioni lirico-sinfoniche sono passati dalla cifra risibile di 47,6 milioni di euro a 50 milioni e, considerando l’inflazione, come valore reale sono diminuiti. Si aggiungano gli effetti di una visione tutta managerialista e privatista che sta facendo non pochi danni all’identità delle nostre grandi istituzioni musicali e non di rado sta causando disastri economici.
Caso esemplare è il Carlo Felice di Genova, dove per far fronte ai tagli e al conseguente dissesto del teatro, per la prima volta più di due anni fa è stata introdotta la cosiddetta «solidarietà», vale a dire una riduzione dell’orario di lavoro con la conseguente diminuzione di stipendio, in parte coperta dalla cassa integrazione. Una medicina amara per i lavoratori ma soprattutto per più versi inutile: il danaro pubblico che veniva risparmiato tagliando gli investimenti, era poi speso in parte come sussidio, e per di più il piano industriale, che oltre alla «solidarietà» aveva visto prendere impegni dagli enti locali e dai privati, è miseramente naufragato poiché gli unici a rispettarlo sono stati i lavoratori. In questi giorni si sta perfezionando un nuovo accordo di «solidarietà» per i tecnici e gli amministrativi, mentre orchestra e coro rinunceranno a una parte dello stipendio. Una Caporetto progettuale e amministrativa visto che il teatro non dà segni di ripresa. È forse per questo che una analoga medicina è stata proposta in questi giorni dal commissario straordinario Carapezza Guttuso per risanare il Massimo di Palermo: tagli ai salari che secondo il sindacato raggiungerebbero il 60% dello stipendio, oltre al recente annullamento di 2 titoli di una stagione che contava 8 opere e si è ridotta del 25%.
La Scala è però l’emblema della gravità della situazione: il teatro vive oramai con più del 60% di risorse proprie (soci e sponsor privati, vendite), dunque ben oltre la soglia di quel 50% che piace alla visione più liberista delle istituzioni culturali. Nel 2012 il teatro meneghino si è visto decurtare circa 7 milioni di euro (3 dallo Stato, 3 dalla Provincia e 1 dal Comune), così oltre a vari tagli per chiudere senza un disavanzo, i lavoratori hanno rinunciato a circa la metà del loro compenso integrativo, un contratto che era stato firmato appena l’anno precedente. Se il più importante teatro italiano è in affanno si può immaginare cosa accada altrove, e dunque è importante sottolineare come il Governo Monti dopo aver garantito che non avrebbe tagliato gli investimenti alla cultura, naturalmente lo ha fatto sia nel 2012 che nel 2013 per lo spettacolo circa il 5% in meno, cui vanno aggiunti i tagli alle amministrazioni locali nei capitoli di spesa dedicati alla cultura. Conseguentemente anche al Lirico di Cagliari i fondi delle amministrazioni locali per il 2013 sono ridotti alla metà. E saranno dolori.
La nuova frontiera è tuttavia sui Lungarni fiorentini e, ahimè, le acque sono molto torbide. Il Comunale di Firenze, uno dei più importanti teatri italiani, nel 2010 è stato affidato a Francesca Colombo, nominata sovrintendente dall’appena insediato sindaco Matteo Renzi. Curriculum non inopinabile, aggressivo atteggiamento manageriale, dopo aver promesso il pareggio di bilancio, in tre anni di gestione Colombo ha accumulato quasi 15 milioni di euro di passivi prima che il teatro venisse commissariato nel febbraio scorso (11,6 certificati da lei stessa per il biennio 2010-11, altri 3 per il 2012 certificati dall’attuale commissario). E questo malgrado i lavoratori del teatro abbiano fatto pesanti periodi di cassa integrazione in deroga, abbiano acconsentito a numerosi licenziamenti volontari con incentivo, e perfino abbiano ceduto una parte degli accantonamenti della loro liquidazione.
Insomma, un’altra Caporetto, cui l’attuale commissario Francesco Bianchi risponde oggi con una linea del Piave vecchia e ammuffita: altri 120 licenziamenti (75 di personale più altri 44 con cause di lavoro che il teatro è destinato a perdere). Il progetto sarebbe chiudere il corpo di ballo in Italia ogni volta che un teatro è in crisi la prima vittima sono i danzatori e disfarsi dei tecnici in cospicua parte, passando da 404 lavoratori del 2009 a 277 nel 2014. Come sempre il ridimensionamento radicale porterà a una diminuzione della produttività e dunque degli investimenti pubblici, mentre nel contempo Firenze è in procinto di avere un nuovo teatro d’opera, del costo di centinaia di milioni di euro, per destinarlo proprio al Comunale, che in questo modo da
centro produttivo diventerebbe un luogo di circuitazione con annessi orchestra e coro, ma senza tecnici per montare gli spettacoli. Si parla di una legge speciale per salvare la situazione, con contributi non per il teatro ma per il festival, il Maggio musicale, dove sono anche circuitati spettacoli. Il provvedimento dovrebbe contenere anche una prebenda per l’Arena di Verona, che non ne avrebbe urgenza, ma si tratta di una cosiddetta larga intesa per gratificare due città, una governata dal centrosinistra e l’altra dal centrodestra.
Impressione diffusa è che la battaglia che in questi giorni stanno combattendo i lavoratori e i sindacati del Comunale di Firenze non riguardi solo i bilanci e i passivi del loro teatro, ma tutti i teatri italiani che si vorrebbero lentamente trasformare da centri di produzione a contenitori per circuitare spettacolini intrattenitivi e canzonettistici. È questo il destino dei nostri grandi teatri? Ma oltre alle Fondazioni lirico-sinfoniche, la musica in Italia comprende altre realtà: un tessuto che si sta assottigliando sempre più, sia quantitativamente che qualitativamente. Parliamo delle Orchestre Regionali talvolta di notevole qualità come la Toscanini di Parma, la Regionale Toscana, la Haydn di Bolzano -, dei Festival, delle associazioni concertistiche, talune di nobili ascendenze come la Filarmonica Romana, gli Amici della Musica di Firenze o di Palermo.
Negli ultimi 13 anni, contrassegnati dai continui tagli ai finanziamenti pubblici operati dai governi di centro-destra e da quelli tecnici, avevano avuto una sola forma di risarcimento: le istituzioni consolidate godevano di un sistema di anticipi che arrivavano a metà stagione e coprivano fino all’80% del finanziamento -, che gli permetteva di non chiedere prestiti e non pagare interessi alle banche. Tuttavia il Governo Monti con due leggi 135/2012 detta Cronoprogramma e 33/2013 sulla trasparenza -, indirizzate a regolare forniture e appalti, ha reso burocraticamente impervio se non impossibile pagare alle istituzioni culturali questi anticipi e perfino i saldi degli scorsi anni, (pur se in questo caso si tratta di contributi e non di forniture e appalti). Risultato: di fronte a un settore fortemente definanziato come quello culturale, le banche prestano a interessi da capogiro oppure non prestano affatto, visto che queste istituzioni, al contrario dei teatri d’opera non possedendo un patrimonio, non sono in grado di offrire garanzie. Ricaduta collaterale: le attività culturali in Italia stanno acquisendo la fama di settore insolvente e gli artisti internazionali vengono sempre meno volentieri.
È un’altra Caporetto, emblematica poiché le due leggi del Governo Monti il cui scopo sarà stato anche encomiabile, non hanno tenuto conto della specificità del settore cultura e dell’emergenza in cui versa da quasi quindici anni e della sua attuale fragilità. Questo ultimo punto, la specificità del settore cultura, non solo non è nell’agenda politica del centro-destra, ma neppure, spiace dirlo, del centro-sinistra. In cosa bisogna sperare: finalmente in un rifinanziamento dell’investimento pubblico in cultura, che oramai nessuno osa proporre? In politiche culturali, serie, lungimiranti e progettuali che mancano da anni? Di certo questi sono solo i problemi più urgenti della musica: una vera grana che il ministro Bray si è trovato sul tavolo, ma per ora la pratica non appare neppure aperta.

L’Unità 26.05.13