attualità, politica italiana

"Una medicina che non piace ma forse ci guarirà", di Eugenio Scalfari

Ho letto ieri sul Foglio cinque pagine di giornale che Claudio Cerasa ha dedicato a Enrico Letta facendone un ampio ritratto politico e culturale. Cerasa è uno dei migliori analisti di personaggi, è giovane, specializzato sulla sinistra e in particolare sul Pd e, pur scrivendo su un giornale di parte, mantiene un’encomiabile obiettività senza naturalmente rinunciare alle sue opinioni. Il ritratto di Letta è abbastanza corrispondente al personaggio anche se non nasconde un giudizio sostanzialmente negativo. L’incolpazione maggiore è quella di puntare, attraverso il governo di strana maggioranza affidato a Letta da Napolitano, ad una storica pacificazione tra centrodestra e centrosinistra, che passa necessariamente dalla fine dell’antiberlusconismo programmatico e più ancora antropologico che ha motivato non solo la sinistra estrema ma anche il centrosinistra negli ultimi vent’anni.
Ebbene, Cerasa su questo aspetto peraltro capitale del suo ritratto sbaglia di grosso sia per quanto riguarda Letta sia il suo mandante, Giorgio Napolitano. Di Letta lo ricavo da quanto lui stesso ha più volte già dichiarato in proposito dopo esser stato nominato presidente del Consiglio. È rimasta celebre la frase pronunciata in Parlamento nel discorso di presentazione per ottenere il voto di fiducia e poi più volte da lui stesso ricordata: «Avrei voluto presiedere un governo ben diverso da questo, che poggia su una formula
anomala».
«Comunque non mi occuperò di politica ma di politiche, cioè di questioni concrete che l’Europa, i bisogni della nostra gente e i disagi che affronta ci impongono di risolvere al più presto. Questo è perciò un governo che non proviene da una libera scelta ma da una necessità che verrà a cessare quando gli scopi per il quale è stato nominato saranno stati realizzati».
Questo Letta. Quanto a Napolitano, che conosco da quarant’anni e che mi onora della sua amicizia, ancora recentemente in una lunga conversazione che abbiamo avuto su alcuni momenti cruciali del passato, ha ricordato la profonda differenza che Enrico Berlinguer faceva tra l’ideologia del compromesso storico e un governo di solidarietà nazionale imposto dalle circostanze e cioè dalla lotta contro il terrorismo degli anni di piombo e la crisi economica e finanziaria che in quello stesso periodo scosse profondamente la società italiana. Il compromesso storico era una sorta di mantello che nascondeva la realtà e la necessità dei veri moventi dell’accordo tra il Pci e la Dc e che ebbe termine nel 1979 con la svolta di Salerno con la quale il Pci tornò all’opposizione e vi si mantenne per tutti gli anni che seguirono. Questo sarà anche — così pensa Napolitano — ciò che avverrà quando la necessità che motiva questo governo sarà superata e riprenderà la dialettica tra centrosinistra e centrodestra le cui differenze di fondo restano in piedi, come resta e sempre resterà la differenza profonda tra la visione del bene comune vista dalla sinistra e quella che ispira i conservatori e i moderati.
Questo governo va dunque giudicato con il metro dello scopo e della necessità e deve muoversi celermente evitando, nei limiti del possibile, di affrontare argomenti «divisivi» che potrebbero minarne l’esistenza e sempre che quegli argomenti possano essere rinviati a momenti più adatti.
Ciò non può tuttavia eliminare la rimozione di tali argomenti quando essa diventi impossibile e rischi di deformare l’esistenza stessa del governo il quale, pur basandosi su una strana alleanza, non può snaturare l’essenza dei partiti che ne fanno parte. Esiste e deve esistere cioè una spiccata autonomia del governo e della squadra dei ministri che lo compongono rispetto ai partiti.
Anche quest’aspetto della questione è stato più volte ribadito da Letta e da Napolitano: il governo, qualunque governo, è un’istituzione e, come tutte le istituzioni, ha una sua autonomia e non è uno strumento delegato dei partiti.
Certo, la sua esistenza dipende dalla fiducia del Parlamento ma se uno dei partiti che lo appoggia decide di sfiduciarlo, deve proporre la sua sopraggiunta sfiducia al Parlamento assumendosene la responsabilità. Se la sfiducia fosse approvata spetterà poi al capo dello Stato di decidere come provvedere nei termini della Costituzione.
Mi pareva che in tempi ancora molto agitati e piuttosto confusi fosse quanto mai opportuno tornar a chiarire questi principi che sono alla base dell’attuale situazione.

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Gli obiettivi concreti che il governo Letta deve realizzare sono i seguenti: 1. Il pagamento effettivo dei debiti che la pubblica amministrazione ha nei confronti delle imprese creditrici, per una cifra che sia la più elevata possibile dei debiti suddetti.
2. Il rifinanziamento della Cassa
integrazione in deroga che ne assicuri la capacità di operare almeno per un anno.
3. Nuovi posti di lavoro per i giovani che facciano diminuire la loro disoccupazione in modo da ridurne almeno due punti percentuali rispetto alla vetta attualmente raggiunta.
4. Incentivi attraverso sgravi fiscali alle classi di reddito più basse.
5. Una riforma dell’Imu con andamento fortemente progressivo rispetto ai patrimoni dei contribuenti.
6. Incentivi alle imprese sull’assunzione di giovani e interventi per la diminuzione del cuneo fiscale.
7. Mantenimento degli impegni assunti con le autorità europee, ma attivazione in Europa di provvedimenti di forte rilancio della crescita.
8. Una politica europea che innesti l’evoluzione verso un governo europeo in linea con le proposte avanzate nei giorni scorsi dal presidente francese, Hollande.
9. Abolizione dell’attuale sistema di finanziamento pubblico ai partiti e sua sostituzione con finanziamenti privati limitati come quota e servizi gratuiti per quanto riguarda tariffe postali, affissione di manifesti ed altre forme di propaganda solo quando si tratti di fasi elettorali.
10. Leggi costituzionali per l’abolizione delle Province, riforma del Senato federale, drastica diminuzione del numero dei parlamentari.
Questo vuole la gente, ma la premessa è la riforma della legge elettorale che, secondo i più recenti sondaggi, si colloca al primo posto
dei desideri del popolo e sulla quale la stessa Corte costituzionale sta per intervenire sollecitata da un ricorso della corte di Cassazione.
Questo è complessivamente il programma per la realizzazione del quale il governo Letta è stato insediato. Quanto tempo ci vorrà per attuarlo? Non moltissimo, ma neanche poco. A occhio, direi che 18 mesi, cioè un anno e mezzo, siano il minimo, tre anni il massimo. Poi si tornerà in nuove condizioni alla normale dialettica di alternativa tra contrapposte forze politiche.
Nel frattempo spetta ai partiti e movimenti riformarsi per riacquistare un grado maggiore di quella comunicazione e fiducia con la società civile che è ormai ridotta ai minimi termini. Ma questo spetta a loro e a loro soltanto.
Questo governo potrà stabilire norme di trasparenza alla loro attività e rendicontazione dei loro bilanci affidata ad un organo terzo che un’apposita legge potrà indicare
e insediare.

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Sarà una fase di intenso lavoro sia del governo sia del Parlamento sia della pubblica amministrazione. Ma anche della società civile, intesa soprattutto come parti sociali a cominciare da imprenditori e sindacati, i cui comuni obiettivi consistono nel far aumentare il tasso di produttività, competitività e posti di lavoro.
Gli imprenditori, nella riunione di Confindustria di venerdì scorso, hanno manifestato una vera e propria disperazione perché l’industria del Nord sta morendo. Se è per questo, sta morendo anche e ancora
di più quella del Centro e del Sud, ma poiché il grosso delle imprese è concentrato a Settentrione, l’allarme è più che giustificato.
La disperazione manifestata da Squinzi presuppone che le imprese siano soltanto vittime innocenti, ma le cose non stanno esattamente così, anzi non stanno affatto così. Le imprese e in particolare quelle piccole e medie, ma anche le grandi e grandissime che sono ancora in piedi, hanno cessato di investire da trent’anni in qua. In parte per le loro eccessivamente piccole dimensioni e, quindi, per l’esiguità dell’autofinanziamento, in parte per la mancata innovazione del prodotto e del processo produttivo. La conseguenza è stata una caduta netta della base occupazionale e una sostituzione dell’attività finanziaria a quella industriale con ricadute sulle esportazioni e soprattutto sulla domanda interna ed una crescente dipendenza dal sistema bancario.
La crisi iniziata nel 2008 e sopraggiunta in Europa nel 2011 ha fatto il resto con pressione fiscale e debito pubblico in aumento e impossibilità di svalutazioni monetarie.
Questo è il panorama dal quale purtroppo occorre ripartire.
Tacere sul sindacato sarebbe una colpevole omissione. Il sindacato e in particolare la Cgil ha anch’esso notevoli responsabilità. In tutti questi anni si è trincerato dietro la difesa dei privilegi esistenti accogliendo col contagocce la flessibilità di un mercato del lavoro che, ingessato nella normativa, è diventato di fatto non già flessibile ma caotico, con una quantità di
contratti e di lavoro nero che ha di fatto stravolto la struttura sindacale diventata anch’essa una sorta di casta.
Questa è la svolta da compiere senza la quale la de- industrializzazione diventerà un fatto compiuto con tutte le conseguenze che ne deriveranno. Il governo attuale c’entra poco perché questo è un lavoro che comporterà tempo e di cui protagoniste sono appunto le parti sociali se saranno in grado di togliersi le bende che le hanno mummificate e ritrovare la spinta che ebbero dalla fine degli anni Quaranta fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Oggi sono ridotte a simulacri di quello che erano un tempo. L’alleanza dei produttori, questo sarebbe lo strumento idoneo. Ma un tempo c’erano i Di Vittorio, i Trentin, i Lama, i Mattei, i Valletta, gli Olivetti. Oggi quelli che sembrano i più attivi sono i Landini, che puntano a fare della Fiom un partito politico il che vuol dire che non hanno imparato nulla e non hanno ancora capito che l’Italia non è un’isola ma una costola dell’Europa la quale a sua volta è una costola del mondo globale.

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I processi di Berlusconi non riguardano
il governo e tantomeno il
Parlamento.
Lo stesso interessato l’ha detto in una delle sue mutevoli dichiarazioni.
Riguardano lui, i suoi avvocati e le Corti giudicanti.
Governo e Parlamento debbono invece aggredire la corruzione con leggi adeguate; quelle varate
dal governo Monti, e in particolare dall’allora ministro della Giustizia Severino, non lo sono. Debbono riportare ai livelli precedenti i tempi della prescrizione ma contemporaneamente accorciare radicalmente la durata dei processi sia civili che penali.
Berlusconi deve difendersi nei processi adducendo prove che risultino convincenti e tenendo presente il principio immodificabile dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; come garanzia esistono tre gradi di giudizio prima che la pena diventi definitiva. Quando lo diventa e se lo diventa va scontata e non ci possono essere né se né ma.
La questione dell’ineleggibilità deve esser chiarita con una legge; quella esistente è di dubbia interpretazione.
Basta un solo articolo che indichi come responsabile dell’azienda il suo azionista di riferimento, dopodiché il suo funzionamento diventa automatico.
Quanto alla legge sui partiti, movimenti o liste che siano, io ragiono così: bisogna fare norme sulla trasparenza e sul finanziamento elettorale.
Trasparenza, limiti di spesa elettorale e relative facilitazioni sui servizi che la fase elettorale comporta. Tanto basta e dev’essere eguale per tutti, partiti, movimenti, liste civiche comunque si chiamino. Chi viola tali norme non potrà partecipare alle elezioni o, secondo la natura della violazione, incorrerà in elevate multe.
Mi pare che basti e che ci sia lavoro per tutti.

La Repubblica 26.05.13