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"Vent'anni di omissioni dietro un dramma nazionale", di Goffredo Buccini

Gli americani, che sanno trasformare i guai in genere cinematografico, lo chiamano worst case scenario: il peggiore degli incubi possibili. Noi, nel nostro piccolo, lo stiamo sperimentando a Taranto. L’Ilva, asse portante della siderurgia nazionale e dunque dell’assetto industriale nostrano, da ieri è senza vertici. Dimissioni collettive, via anche un manager del livello di Enrico Bondi appena insediato per raddrizzare la barca. A rischio almeno 40 mila posti di lavoro, da domani la città dei Due Mari ricomincia a vivere tensioni che una recente sentenza della Consulta e la nascita di un pool di banche finanziatrici parevano avere allentato. E’ l’ultimo effetto del sequestro deciso dalla giudice Todisco contro la Riva Fire, la cassaforte di Emilio Riva e figli: otto miliardi e cento milioni di euro bloccati, cifra sconcertante (beni indispensabili per andare avanti, dicono in azienda preparando il ricorso). Soldi che sarebbero stati sottratti alle bonifiche ambientali e alla sicurezza degli impianti dal 1995 a oggi (cioè anche mentre i vertici Ilva dialogavano col governo Monti ottenendone deroghe e benefici). Certe morti in fabbrica, scrive la gip in un passaggio agghiacciante, si spiegano anche così.
C’è da augurarsi che la Todisco abbia preso un abbaglio immane. In caso contrario siamo in presenza di un’operazione coloniale (in senso tecnico: sfruttamento di un territorio da parte di un’entità economica esterna, nativi danneggiati, risorse portate altrove). Un’operazione non consumata, tuttavia, nel buio dell’Africa del diciannovesimo secolo, ma oggi, sotto i riflettori del villaggio globale. Tutti potevano vedere. Tutti si sono girati dall’altra parte. Quando l’acciaieria nacque per mano pubblica, mezzo secolo fa, un vecchio sindaco dc, Angelo Monfredi, disse che qui erano «talmente poveri» che si sarebbero fatti mettere gli impianti «anche in piazza della Vittoria», cuore di Taranto. I suoi successori, via via meno poveri, non si sono allontanati molto dalla «linea Monfredi», nemmeno trattando con i privati che da vent’anni sono scesi quaggiù.
Perché, senza voler nulla togliere alle responsabilità eventuali dei Riva (sempre più inadeguati a gestire la catastrofe) è difficile non scorgere attorno ad esse un quadro di disattenzioni e omissioni tra i politici che avrebbero dovuto legiferare, i sindacalisti che avrebbero dovuto protestare, i giornalisti che avrebbero dovuto documentare problemi noti a Taranto anche ai bambini (non per modo di dire: ci sono prati alla diossina dove è stato vietato giocare per ordinanza sindacale). Senza allontanarsi molto nel tempo, quando nel 2005 l’Ilva subì la prima condanna per inquinamento, Comune e Provincia si ritirarono dall’elenco delle parti civili e la Regione di Fitto non ci si mise neppure («certi nodi non si sciolgono per via giudiziaria»: giusto, purché si trovi un’altra via). Dai finanziamenti (regolarmente dichiarati) dei Riva a Bersani nel 2006, agli apprezzamenti di Vendola per il patron Emilio, ancora nel 2011, sulla rivista dell’azienda («credo che dalla durezza dei primi incontri sia nata la stima reciproca che c’è oggi»); dalle rassicurazioni dell’attuale sindaco Stefàno al boss delle pubbliche relazioni Archinà, sul rinvio sine die del referendum avversato dall’azienda, fino al ricorso di Cgil e Cisl proprio contro quel referendum; senza dimenticare il silenzio tenace di generazioni di senatori e deputati pugliesi: l’idea di dover difendere comunque i posti di lavoro ha convinto chi era in buona fede e coperto chi magari lo era meno. Faldoni di intercettazioni mostrano connivenze di giornalisti locali. A ciascuno il suo. Ma il flop del tanto sospirato referendum, infine celebrato ad aprile, ha svelato lo scarso interesse alla questione persino della mitica società civile (massimo astensionismo a Tamburi, il quartiere più inquinato). L’Ilva è dramma nazionale, la sua chiusura avrebbe effetti esiziali sulla nostra economia, sicché ora si guarda al governo Letta, all’Europa, a qualche santo patrono. Ma «ce me ne futt’a mme?, che me ne frega?», il motto identitario dei tarantini, troppo a lungo ha unificato la Penisola sulla questione. Davvero la colpa è tutta di patron Emilio?

Il Corriere della Sera 26.05.13