attualità, politica italiana

"La democrazia fredda", di Michele Prospero

C’è un generale calo dei votanti nelle elezioni amministrative, malgrado il presidenzialismo comunale, che chiama all’elezione diretta del sindaco. Cresce (con schede lunghe un metro e mezzo) l’attenzione alla politica come arena in cui trovare accesso e visibilità. Ma precipita la credibilità della politica e si appanna il senso della sua stessa funzione storica. Solo a Roma si sono presentate 40 liste e circa duemila sono i candidati in lizza.

Si tratta di una mini città, conteggiando anche le scalate ai posti di consiglieri nei municipi. In fondo, la politica è vissuta come la residuale arena in cui è possibile sperimentare una qualche forma di mobilità in un mondo altrimenti bloccato negli ascensori sociali.
Aumentano perciò i soggetti della competizione in un quadro però di eclisse della fiducia accordata dal pubblico alla politica. Le metafore crepuscolari (de-democratizzazione, deconsolidamento, post-democrazia) sono molto realistiche nel cogliere l’odierna alienazione politica. Le immagini aurorali che annunciano il bel trionfo di una agorà elettronica, di una società ormai trasparente e di una sfera pubblica dialogica sono invece edificanti e illusorie. L’iper-democrazia per i ceti riflessivi capaci di discorso e argomentazione informata (rete, democrazia deliberativa, primarie) e l’apatia per i ceti produttivi e per i condannati ai ruoli periferici: questa sembra la radiografia dell’esistente divisione dei compiti tra due società polarizzate. Una ipertrofia della partecipazione convenzionale e non convenzionale cara ai ceti urbani secolarizzati (con tempo, istruzione e denaro) convive con un abbandono dei riti della cittadinanza da parte dei ceti subalterni e periferici.

La democrazia (persino nella Grecia che brucia) conserva il suo l’involucro minimale-competitivo, quello esaltato da Schumpeter. Smarrisce però la sua peculiare ossatura novecentesca, quale agenzia di integrazione tra pubblico e privato, diritti e crescita, società e potere, costituzione e lavoro.

La prevalenza dello spirito capitalistico acquisitivo (con i grandi poteri dell’economia che tendono a fuggire dallo spazio pubblico e dagli oneri della fiscalità statale) ha sbiadito il costituzionalismo incardinato sul valore inclusivo del lavoro.
E con l’emarginazione del lavoro è inevitabile anche l’eutanasia della democrazia, che rimane in piedi ma solo come una asfittica procedura. Tra gazebo e retoriche per cui uno vale uno, la democrazia effettiva si riduce a un nucleo sempre più minimalistico di tecniche impotenti nel mitigare la rudezza dei rapporti di potere annidati nella sempre più diseguale società di mercato.
Ai processi di spoliticizzazione di per sé indotti dal capitalismo finanziario, che rinverdisce i fasti dell’individualismo possessivo con il dominio incontrastato della ricchezza, si aggiunge una inaudita de-politicizzazione condotta dalla politica medesima. Trionfano manifesti con slogan banali, e gli aspiranti sindaci nascondono le tracce dell’appartenenza. Una rifondazione identitaria dei partiti, con un ritrovamento di grandi principi ispiratori, è ormai una esigenza per la sopravvivenza della democrazia.
A una politica che già il mercato relega nella irrilevanza (e crescono gli imprenditori che si fanno liste personali in ogni città), si unisce una classe politica che si occulta e con cartelli demenziali confessa tutta la sua incapacità di sfiorare il nodo dei grandi poteri postmoderni. I ritrovati della iper-democrazia svelano un circolo vizioso della partecipazione: gli incentivi all’azione pubblica diretta non accorciano la distanza tra potere e società e con il plusvalore di tempo e denaro ribadiscono gli indici di diseguaglianza e di esclusione.
La mera alternativa della società civile (comitati, movimenti su singole istanze) alle forme di separatezza del politico non prospetta un rimedio efficace nel riparare al vuoto di rappresentanza dei ceti marginali. Tra la solitudine del decisore (presidenzialismo municipale) e l’atomismo dell’abitante della società civile (anomia, esclusione, sfiducia, rabbia) risalta l’assenza della mediazione politica.

La politica progetto è necessaria ma non può rifiorire senza il terreno fertile dell’autonomia del lavoro e senza la rinascita della mediazione. Nelle città si presentano al voto tanti uomini che vorrebbero essere soli al comando ma così la politica non riparte e anzi cresce la disillusione, l’abbandono. Senza partiti e sindacati, colpiti al cuore dallo tsunami antipolitico, non c’è una sfera pubblica rigenerata ma cresce solo la delega ad arcani centri di potere in grado di influenza, di pressione, di appropriazione.

L’Unità 27.05.13