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"Quei femminicidi non in nome dell’amore", di Sara Ventroni

I fatti sono avvenuti a Corigliano Calabro ma potevano accadere ovunque. La geografia non c’entra. Tantomeno il folklore. Le donne vengono uccise al sud come al nord. In una strada sterrata di provincia come in un appartamento di città. I mariti, i compagni, i fidanzati omicidi sono insospettabili professionisti o disoccupati. Hanno sessant’anni oppure diciassette. L’unico dato certo è che la deformazione affettiva nelle relazioni tra gli uomini e le donne non conosce frontiere di luogo, né di status. Non guarda in faccia ai titoli di studio, e non dipende dal conto in banca. Ricchezza o povertà, qui, non illuminano i fatti. I dati ci dicono, anzi, che dove le donne lavorano e sono indipendenti nel nord dell’Italia, come nel nord dell’Europa le violenze sono più frequenti.
La costante dell’intreccio ossessivo e prevedibile è dunque da cercare altrove.
La trama è piuttosto elementare: lei ha deciso di andarsene, di troncare; oppure ha bisogno di una pausa di riflessione. Lo dice, lo spiega, lo scrive. Ma lui non ci sta.
La morte di Fabiana non fa eccezione. È un cliché. Rientra nel nostro appuntamento quotidiano, con variazione su tema: non è il racconto del furore adolescenziale. Non è l’esplosione di gelosia. Non è un pruriginoso romanzo di consumo, e non è un dramma di Shakespeare. Ma soprattutto: non è una storia d’amore.
Più che il fatto in sé, ci illumina la rappresentazione che ne diamo. Questa volta le cronache vogliono sottolineare che la ragazza avrebbe lottato con tutte le sue forze, prima di morire. Dopo aver ricevuto diverse coltellate, Fabiana avrebbe tentato di strappare dalle mani del suo fidanzatino la tanica di benzina.
Ci sorpendiamo di questo gesto chiaro, animale, di difesa. Lo mettiamo in cornice come ci fosse qualcosa da indagare. Un di più di innocenza che andrebbe riconosciuto alla ragazza, come un epitaffio. O una medaglia al valore.
Il dettaglio sul quale indugiamo ci dice che abbiamo la coscienza sporca. Che ancora esite, in qualche punto remoto dell’immaginario collettivo, un tarlo che bisbiglia: se la donna non si difende (e se alla fine non muore, trovando il martirio che le spetta) vuol dire che in fondo lo voleva. Perché la donna è davvero innocente solo se riesce a dimostrare, post mortem, una qualche attitudine alla santità.
In caso contrario, ci sarebbe il sospetto di complicità. Di una corrispondenza malata di sensi. Un desiderio inespresso di far coincidere amore e morte. Tentazione ancora irresistibile per i cantori della nera, bisognosi di rincarare con ogni mezzo la dose quotidiana di pathos.
Allora tocca sfrondare il linguaggio dalle incrostazioni e dai riflessi pavloviani, dove «amore» rima sempre con «dolore», e viceversa. Oggi possiamo dire che non si è trattato di raptus. Oggi dovremmo chiarire che Fabiana si è difesa perché non voleva morire. Non c’è un altro significato da attribuire all’estremo tentativo di difendersi, se non quello di salvare la propria vita. Non c’è un fine remoto, o uno scopo da insinuare. Nessun desiderio di diventare vittima, magari più eccellente delle altre.
I fatti sono questi. Lei ha quindici anni, lui diciassette. Due ragazzi. Probabilmente goffi nei primi approcci. Analfabeti dell’amore e del sesso. Dilettanti della vita. Inconsapevoli di sé e di una relazione. Il mondo è ancora tutto da scoprire. Di là dalle coltellate, ci impressiona il fatto che il ragazzo abbia trovato il modo per dilatare il tempo, andando in cerca di combustibile. Come se colpire diritto al cuore con un coltello non bastasse. Come se bisognasse cancellare i definitivamente l’altro, nel fuoco. Un falò, e un autodafé.
La madre di Fabiana dice che anche il ragazzo è una vittima. Forse è così. Sicuramente è così. Ma non lo aiuteremo certo lasciandolo nel dubbio di aver ammazzato in nome dell’amore.

L’Unità 28.05.13