attualità, pari opportunità | diritti

"Una proposta per fermare il femminicidio" di Simonetta Agnello Hornby

Nel 1909 la contessa Giulia Trigona, dama di corte della regina Elena, all’età di trentadue anni fu accoltellata e sgozzata dall’amante trentenne in una camera d’albergo accanto alla stazione Termini. L’omicida tentò poi di suicidarsi – con un’arma più nobile: una pistola, oggi esposta al Museo del crimine di Roma – e, dopo essere stato condannato all’ergastolo, nel 1942 meritò il perdono reale, su richiesta di Mussolini: morì sette anni dopo nel suo letto, accudito dalla domestica che aveva nel frattempo sposato.
Per la notorietà e il rango dei personaggi coinvolti la notizia divenne di dominio pubblico come un fatto raro, invece la violenza c’era anche allora, e in tutti gli strati sociali. Tanta. Solo che la vergogna delle vittime e il desiderio della gente di non sapere la coprivano di un silenzio di perbenismo. Che io chiamo omertà.
Ho incontrato la violenza domestica all’età di cinque anni. A Siculiana, guardavo dal balcone della cucina – insieme alle cameriere – un ubriacone che la sera tornava nel vicolo in cui viveva. I vicini lo aspettavano per assistere al rito che si ripeteva sempre uguale: assaliva la moglie, lei urlava, chiedeva aiuto, poi i colpi, poi lei cadeva. A quel punto, come seguendo un copione, gli astanti, in coro, chiedevano clemenza, accusavano e commiseravano. I figli piccoli restavano muti. Il teatro della violenza.
Oggi basta un clic per accedere a violenze ben peggiori.
A ventun anni ho visto le ferite e i lividi sul corpo di una cliente dello studio di affari in cui lavoravo, una donna ricca, coperta di regali da un marito che – diceva lei – la adorava. Da allora ascolto con sospetto chi mi dice senza motivo di essere felice.
In veste di avvocato ho visto tanta altra violenza. L’ho guardata negli occhi. Occhi sfuggenti. Dalla verità, dalla responsabilità e dalla giustizia. Non è più tollerabile. Le donne che la subiscono hanno il diritto di dire «no», «basta», ad alta voce. Eppure tante non ne hanno la forza. Il pudore e la vergogna le ammutoliscono. Il loro silenzio è aiutato dalla riluttanza degli altri a lasciarsi coinvolgere e dalla mancanza di un approccio olistico da parte degli enti che dovrebbero assistere loro e le loro famiglie – i figli tendono a ricadere nei ruoli dei genitori: chi vittima e chi aggressore.
La donna che ogni sera attende il ritorno del suo uomo con un misto di terrore e ansia, ma anche la speranza che per una volta lui la risparmi, dev’essere incoraggiata a parlare: può essere aiutata a uscire da quell’inferno. È per questo che ho scritto «Il male che si deve raccontare». Racconto le storie delle mie clienti vittime di violenza e porto la speranza che cambiare vita si può.
Il 29 maggio, il presidente della Camera Boldrini ha incontrato Patricia Scotland, inglese e pari del Regno che da ministro laburista ha sensibilizzato i ministeri di Giustizia e degli Interni e i datori di lavoro sul tema della violenza domestica. Scotland ha dimostrato, dati alla mano, che la violenza domestica può essere sconfitta, vite possono essere salvate e madri e figli possono ricominciare a vivere senza paura. Il suo metodo, semplice ed efficace, migliora l’accoglienza delle donne da parte di enti del welfare e del sociale e della polizia, sensibilizza i datori di lavoro e crea un sistema olistico di sostegno per le donne e i figli tramite un tutor che rimane in carica per tre mesi. Questo ha contribuito a contenere sensibilmente la violenza domestica nel Regno Unito. Scotland ha capito come nessun altro l’immensa solitudine e la paura della vittima – isolata, senza denaro, incapace di gestire la quotidianità e le pratiche burocratiche. E ha capito il danno che subiscono i figli, testimoni, vittime anch’essi e futuri aggressori: due terzi dei minori autori di reato hanno avuto esperienza di violenza domestica, e la percentuale tende a salire. Il tutor coordinerà gli interventi dei servizi compilando un documento per stabilire il livello di rischio: lo stesso giorno il caso sarà portato a una riunione dei servizi che provvederà all’immediato necessario, secondo il livello di rischio. La vittima e la sua famiglia sapranno che per i successivi tre mesi riceveranno aiuto. La recidività delle vittime è diminuita del cinquanta per cento e le condanne sono aumentate. Nella sola Londra le morti sono diminuite da 49 a 5, anche con il concorso dei datori di lavoro delle vittime, che hanno formato la Corporate Alliance Against Domestic Violence (Caadv), una onlus di settecento aziende che sostengono le dipendenti vittime di violenza e di stalking attraverso pratiche efficaci e personale addestrato. Dal 2005, il costo nazionale del mancato lavoro delle donne è diminuito da 2700 milioni a 1900 milioni di sterline.
Il metodo Scotland, adattato alla realtà italiana, può essere usato come un punto di partenza. Ora è il fulcro della Eliminating Domestic Violence Global Foundation, creata nel 2011 e fonte di ispirazione in molti Paesi.
La violenza domestica si può debellare, ma ci sono altri nemici: il pessimismo, la sfiducia e quasi la paura di sperare. Nel Regno Unito la Scotland ha fatto tutto da sola, le donne non sono scese in piazza come in Italia. Noi dunque siamo avvantaggiati, ma adesso è importante che tutte le donne facciano fronte unico contro la violenza, anche con gli uomini – anche gli uomini sono vittime e possono cambiare.
Spero che il libro serva. È un tributo ai miei clienti inglesi e ai miei lettori italiani: lo meritano. Grazie alla generosità della casa editrice, il ricavato delle vendite – inclusi i nostri diritti d’autore – finanzierà la sezione italiana di Edv.

La Stampa 30.05.13