attualità, politica italiana

"Anche tra i giovanissimi cresce il numero di chi si informa. Però aumenta l’astensione", di Carlo Buttaroni*

L’interesse e l’attenzione nei confronti della politica è progressivamente cresciuto ma il numero di quanti si recano ai seggi per votare è contestualmente diminuito. Anche se si discute di politica più di quanto si facesse in passato, in realtà si pratica meno, e l’attività si limita a questioni che riguardano, direttamente o indirettamente, i momenti elettorali. La formazione del consenso è affidata alla rappresentazione della tv, perché la politica fa audience. Quando è «moderna», si affida ai pensieri (pensierini) dei leader postati sui social network, visto che anche i cinguettii permettono di contabilizzare gli ascolti. Il consenso solo marginalmente, e in misura sempre minore, si alimenta direttamente alle fonti primarie d’informazione politica, cioè i partiti.
I leader politici (grandi o piccoli, nazionali o locali) impegnano la grande maggioranza del tempo in tre attività: leggere le agenzie di stampa, emanare comunicati, parlare al loro interno. Si stima che queste tre funzioni assorbano, mediamente, più del 95% dei tempi della politica. Solo una parte residuale delle attività è destinata alla relazione con gli elettori e alla funzione di rappresentanza sociale. Con la conseguenza che le occasioni di partecipazione diventano più rarefatte. Perché stupirsi, quindi, se la distanza tra i cittadini e i partiti aumenta, se la fiducia nella politica diminuisce e se meno elettori si recano alle urne?
LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
La crisi della politica si riflette nel calo della partecipazione e investe in pieno la dimensione della democrazia rappresentativa. Un primo fattore che evidenzia la crisi, paradossalmente, è proprio il continuo richiamo al primato della sovranità popolare. Esso nasconde, in realtà, una deformazione profonda della rappresentanza stessa che trova forma nella verticalizzazione e personalizzazione delle leadership, nel rafforzamento degli esecutivi e nell’esautorazione delle assemblee legislative. Un assetto dove conta soprattutto il leader, identificato come espressione diretta e organica della volontà popolare, concepita a sua volta come la sola fonte di legittimazione dei pubblici poteri. È così che la scelta della maggioranza e del suo capo viene concepita come un fattore di valorizzazione e di rafforzamento della rappresentanza, tanto da far parlare di democrazia più diretta e più partecipativa. Il risultato è, invece, una deformazione in senso plebiscitario della democrazia rappresentativa con i partiti ridotti a comitati elettorali, dove il rapporto con l’opinione pubblica passa prevalentemente attraverso i media. Un approccio in cui sembrano prevalere quegli aspetti che ripropongono una tentazione pericolosa: l’idea del governo degli uomini, o peggio di un uomo – il capo della maggioranza contrapposto al governo delle leggi. Ma come affermava il giurista e filosofo Hans Kelsen «una siffatta volontà collettiva non esiste», e la sua assunzione ideologica serve a «mascherare il contrasto di interessi, effettivo e radicale, che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancor più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro». Per questo, scrive Kelsen, «l’idea di democrazia implica assenza di capi».
Il secondo fattore di crisi della democrazia rappresentativa si ritrova nella crescente occupazione delle istituzioni pubbliche da parte della politica. La nomina dei parlamentari attraverso liste bloccate, prevista dall’attuale legge elettorale, rappresenta la forma estrema ed esplicita di questa identificazione tra partiti e istituzioni. Non bisogna dimenticare un altro aspetto della crisi della democrazia che si riflette nella riduzione della partecipazione politica e nel declino del senso civico. All’origine c’è il venir meno del loro radicamento sociale.
LA SFIDA
Quali possono essere i rimedi contro la crisi della democrazia rappresentativa? Occorre innanzitutto restituire ai partiti il compito di organizzare e tutelare la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale introducendo norme stringenti sulla loro democrazia interna. C’è un luogo comune, infatti, che occorre sfatare: l’idea che, in tema di diritti e di rappresentanza politica, le garanzie giuridiche non servirebbero, ma sarebbero addirittura lesive dei principi di autodeterminazione politica. L’esperienza ha purtroppo fornito una dura, sconfortante smentita di questa illusione.L’autoregolazione non è sufficiente a impedire la degenerazione dei partiti e solo la forza di una legge dello Stato è in grado di imporre l’applicazione di principi democratici interni alle forze politiche. Una legge che potrebbe prevedere il rispetto di taluni vincoli statutari in tema di democrazia nella vita dei partiti quale condizione, ad esempio, del finanziamento pubblico. In questo modo sarebbe garantita sia l’autonomia dei partiti stessi che la democrazia interna. Sarebbero, infatti, liberi di affidarsi incondizionatamente a un leader o organizzarsi come organizzazioni monocratiche quei partiti che decidessero di rinunciare al finanziamento pubblico, mentre sarebbero obbligati a soddisfare i principi di democrazia stabiliti dalla legge quelli che intendono godere del finanziamento pubblico. Una cosa è certa: la garanzia della democrazia rappresentativa passa attraverso il rafforzamento della democrazia costituzionale. Quanto più si indebolisce il rapporto di rappresentanza, quanto più i rappresentanti si distaccano dalla società, tanto più diventa essenziale il sistema di limiti e di vincoli, di separazioni tra poteri e di garanzie, idonei a impedirne la degenerazione autoritaria.
In Italia, dove la costruzione della democrazia è stata fatta con l’apporto essenziale dei grandi partiti la crisi di rappresentanza e di partecipazione delle istituzioni politiche incide direttamente sullo stato della democrazia. Il populismo mediatico e l’economia degli interessi particolari hanno cancellato il senso delle istituzioni, su cui prevaricano i partiti sempre meno rappresentativi della società. Il termine egemonia nella cultura politica riporta inevitabilmente ad Antonio Gramsci e alla sua ipotesi di «riforma morale e intellettuale». In questo processo, Gramsci affida agli intellettuali un ruolo fondamentale nella costruzione di un diverso rapporto tra cultura e politica. Oggi, il numero e le qualifiche degli intellettuali sono molto aumentati e diffusi nel corpo sociale con diverse mansioni rispetto ai tempi di Gramsci, ma hanno perso la loro funzione di formulare un pensiero collettivo, di esercitare l’egemonia culturale per la nuova società. E oggi si riaffaccia nuovamente l’esigenza di trovare un filo conduttore culturale e politico, in una società disgregata e individualista. Gli intellettuali devono, dunque, riprendere a svolgere il confronto tra valori, teorie, prospettive future. Oggi più che mai, infatti, non solo è necessario difendere i diritti connessi alla propria condizione di cittadino ma anche porsi l’obiettivo irrinunciabile di una cittadinanza globale, fondata sul riconoscimento concreto dell’universalità dei diritti e sul comune intento di costruire una società in grado di garantire a tutti una vita dignitosa.

presidente Tekné

L’Unità 03.06.13