attualità, politica italiana

Quel regalo di Natale al premier-padrone", di Massimo Giannini

Ci deve essere ancora uno spazio pubblico per la verità, in questa Italia punita dalla matematica della recessione e intorpidita dalla retorica della pacificazione. Le motivazioni della condanna di Berlusconi, nel processo Unipol-Bnl, occupano quello spazio con un frammento di verità impossibile da non vedere. In quelle 90 pagine non c’è solo la “pistola fumante” del gigantesco conflitto di interessi che il Cavaliere si porta sulle spalle fin dalla sua discesa in campo nel 1994
MA c’è anche la “prova regina” che spiega perché, oggi, non ha senso costituzionalizzare l’irriducibile anomalia berlusconiana, e negoziare con l’uomo che la incarna addirittura il passaggio dalla Repubblica parlamentare a una Repubblica presidenziale.
La vicenda è tristemente nota. Il processo Unipol-Bnl ruota intorno alla famosa registrazione della telefonata tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, nella quale il segretario dei Ds chiede all’amministratore delegato di Unipol: «Allora, abbiamo una banca?». Il 24 dicembre 2005, vigilia di Natale, Fabrizio Favata, titolare della Solari. Com Srl e socio in affari di Paolo Berlusconi (nella I. P. Time Srl) per la commercializzazione dei decoder, si
presenta a Villa San Martino, ad Arcore. Con lui c’è l’amico Roberto Raffaelli, a sua volta titolare della Research Control System, società che gestisce attrezzature e tecnologie per intercettazioni telefoniche per conto della Procura di Milano. I due hanno un dono prezioso per Silvio Berlusconi, che li aspetta a casa insieme al fratello: l’audio della telefonata tra Fassino e Consorte, registrata l’estate precedente, ai tempi della scalata dei “furbetti del quartierino” Ricucci- Fiorani-Coppola. Il nastro è materia esplosiva, e scottante perché segreta persino per gli inquirenti: si tratta di un’intercettazione «non ancora trascritta né sintetizzata nei verbali » dei magistrati, e dunque «esistente al momento dei fatti solo in formato audio».
Per il Cavaliere, che in quel momento è presidente del Consiglio, l’occasione è troppo ghiotta, quasi irripetibile. Siamo a soli tre mesi dalla fine della legislatura e quindi delle elezioni politiche. La campagna elettorale è già cominciata. L’allora Cdl, secondo i sondaggi, va verso una sonora sconfitta. Se il contenuto di quella conversazione diventa pubblico, al culmine della polemica sugli scandali bancari e sulla commistione tra politica e affari, Berlusconi può assestare un colpo micidiale al centrosinistra coalizzato intorno a Romano Prodi nell’Unione (e in effetti, al voto del 9-10 aprile, il centrodestra quel colpo lo assesterà, recuperando lo svantaggio e lasciando al centrosinistra una maggioranza di appena due senatori).
Il 31 dicembre 2005, una settimana dopo l’incontro carbonaro di Arcore, il testo completo dell’intercettazione Fassino-Consorte viene pubblicato a nove colonne dal “Giornale”, il quotidiano della famiglia Berlusconi. Paolo, che ne è formalmente il proprietario, ha girato alla redazione la “pen-drive” in cui è registrato l’audio segreto. Per questo, il 7 marzo scorso il tribunale di Milano condanna lui a due anni e tre mesi, e Silvio a un anno, per il reato di concorso in rivelazione di segreto d’ufficio. Il Cavaliere intona il consueto ritornello: «È in atto una persecuzione intollerabile contro di me, che dura ormai da 20 anni». I suoi avvocati Longo e Ghedini sparano le solite munizioni ideologiche: «È una sentenza politica, che dimostra l’impossibilità di celebrare processi a Milano: Berlusconi quell’intercettazione non l’ha mai ascoltata».
Le testimonianze acquisite nel corso del processo, e ora il testo redatto dai giudici milanesi, spiegano il perché della condanna e smontano il castello difensivo dell’ex premier. Nelle motivazioni della sentenza si legge che la sera del 24 dicembre la registrazione audio della telefonata Fassino-Consorte «venne ascoltata attraverso il computer, senza alcun addormentamento da parte di Silvio Berlusconi, o inceppamento del pc». In un interrogatorio reso alla Procura ai primi di marzo 2009 da Favata è lui stesso a raccontare che «di fronte a un albero di Natale bianco» il manager della Rcs Raffaelli consegna il nastro nelle mani dell’allora presidente del Consiglio.
Una versione che Favata ribadisce anche due anni più tardi, quando al programma “Piazza Pulita” rilascia un’intervista in cui afferma: «Berlusconi ci ricevette ad Arcore la sera del 24 dicembre 2005, ascoltò l’intercettazione e poi ci promise eterna riconoscenza… All’epoca il segretario dei Ds è stato allontanato. Abbiamo tolto a Berlusconi il maggior competitor… si rende conto cosa vuol dire?». E alla domanda «quindi lei sta dicendo che Berlusconi quella sera era cosciente e soprattutto consapevole di quello che gli stavate portando in casa?», Favata risponde: «Assolutamente, assolutamente sì… «.
Con tutta evidenza Berlusconi premier sa, vuole e decide «nella sua qualità di pubblico ufficiale ». Sa «della strenua richiesta di Raffaelli di incontrarlo per potergli presentare personalmente il suo progetto» per alcuni affari in Romania e ottenerne «l’appoggio, atteso che, secondo quanto lui stesso ha affermato, non avrebbe ceduto la chiavetta se non in quella occasione». Sa bene «il motivo per cui si svolgeva quella visita, in parte destinata a fargli sentire la famosa telefonata, nella chiara prospettiva della sua pubblicazione». Sa ancora meglio «il peculiare interesse in quel periodo pre-elettorale » che quel nastro riveste, «tenuto conto della già sottolineata portata politica di quella conversazione ». Vuole quindi che sia data in pasto all’opinione pubblica alla vigilia del voto, perché «l’espressione “abbiamo una banca” pronunciata dall’allora segretario ds Fassino, è significativa della capacità della sinistra di “fare affari” e mettersi a tavolino con i poteri forti, in aperto contrasto con la tradizione storica, se non di quel partito, quanto meno dell’orientamento del suo elettorato». E infine decide, proprio lui, nella sua «qualità di capo della parte politica avversa a quella di Fassino», di far uscire quell’intercettazione sul quotidiano di sua proprietà, dando «il suo benestare alla pubblicazione della famosa telefonata».
Sta in «questo ruolo precipuo del premier» — che usa il suo braccio mediatico per colpire un avversario politico e abusa del suo ruolo istituzionale per violare un segreto istruttorio — la ragione della sua condanna e la patologia insostenibile del suo conflitto di interessi. Sta nella «gratitudine eterna» che il Cavaliere giura a Favata e Raffaelli quel 24 dicembre, in cambio del «regalo di Natale» che gli hanno consegnato, l’estorsione sistematica alla quale il leader della destra italiana sottopone le istituzioni democratiche e le opposizioni politiche. Ancora una volta, c’è un inquietante «metodo di governo», nel modus operandi del potere berlusconiano. E lo si può cogliere anche nelle carte di questa vicenda processuale, riandando all’intervista di Favata a “Piazza Pulita” nel 2011: «In quella chiavetta che consegnammo ai fratelli Berlusconi — ricorda l’imprenditore — c’erano tante altre intercettazioni, che coinvolgevano diversi politici. Mi ricordo che Paolo Berlusconi chiese se riuscivamo a trovargli un nastro in cui D’Alema diceva al suo interlocutore di non parlare per telefono».
Qui agiscono, in sincronia e sintonia, la macchina del fango e quella del ricatto. Nell’uso e nell’abuso di un apparato oscuro e spionistico, che incrocia servizi e Guardia di Finanza, intelligence militare e civile, e che abbiamo visto all’opera in tutte le vicende più oscure del quasi Ventennio, dall’affare Telekom Serbia alla security Telecom Italia, dalla P4 al caso Marrazzo. Intercettazioni, video, dossier acquisiti in vario modo, spesso anche illecito, e spesi sul mercato politico per screditare o distruggere gli avversari reali o potenziali.
Le inchieste giudiziarie avranno il loro corso, nei processi Unipol- Bnl, Ruby e diritti tv Mediaset. La Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione prenderanno le loro decisioni, che fatalmente determineranno la vita o la morte delle Larghe Intese. Ma intanto questo è accaduto, nel-l’Italia torbida di questi anni. Conviene ricordarlo una volta di più, mentre anime perse del centrodestra e anime candide del centrosinistra pretendono di ragionare di presidenzialismo con lo Statista di Arcore.

La Repubblica 05.06.13

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