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"Quella famiglia a caccia di verità", di Carlo Bonini

La morte di Stefano Cucchi meritava e merita giustizia. Non la ha avuta. Lo Stato che, una notte di ottobre di 4 anni fa, lo aveva preso in custodia sano e lo ha restituito cadavere si dichiara irresponsabile “per insufficienza di prove”. La sentenza della terza Corte di Assise di Roma derubrica la fine di questo ragazzo tra indicibili tormenti a banale colpa medica. Di quelle che nei tribunali sbrigano i giudici monocratici di fronte all’imperizia, alla negligenza di qualche camice distratto. Le lesioni di cui Stefano ha cominciato a morire in un sotterraneo del Palazzo di Giustizia non hanno responsabili. Perché compatibili non solo con la furia di un pestaggio per mano di agenti penitenziari, ma anche con “una caduta dalle scale”. L’imperizia, il cinismo di chi, infermiere, lo vide spegnersi in un letto del “reparto protetto” (insopportabile ironia della lingua italiana) dell’ospedale Sandro Pertini, sono state ritenute “irrilevanti” perché non causa diretta della morte. In fondo, nel cadavere di Stefano furono ritrovati solo 1.400 centimetri cubi di urina. In fondo, il catetere cui era agganciato si era ostruito e nessuno se ne era accorto. Ma chi è mai morto per una vescica gonfia come un pallone?
Resta dunque solo la cinica sottovalutazione di quei sei medici del Pertini che ebbero in cura Stefano e non seppero curarlo. Perché — anche questo ha stabilito la Corte di Assise — in quell’abbandono non ci fu “dolo” e dunque volontà, solo negligenza.
I processi penali accertano responsabilità individuali e la colpevolezza richiede una prova piena. Ma i processi fissano per sempre anche circostanze di fatto che diventano cruciali perché metro del senso di ingiustizia che una sentenza come questa trasmette. Ebbene, il processo Cucchi ha avuto un testimone chiave che non è stato creduto. O, evidentemente, non a sufficienza. Un ragazzo africano, Yaya Samura, che divideva con Stefano Cucchi la cella nei sotterranei del Palazzo di Giustizia in attesa del processo per direttissima. Che ne vide il pestaggio dallo spioncino. E a cui Stefano mostrò i pantaloni sporchi di sangue, le ecchimosi e le ferite provocate dai calci di chi si era accanito su di lui. Quel ragazzo africano raccontò ai pm ciò che aveva visto prima che qualsiasi suggestione potesse disturbarne il ricordo. Le sue parole hanno trovato formidabile riscontro nelle strisciate di sangue interne dei pantaloni di Stefano, tipiche di chi li arrotola per mostrare una ferita. Non è bastato. E sarà interessante, quando questa sentenza sarà motivata, capirne la ragione.
La Corte di Assise premia al contrario le facce di pietra degli agenti della polizia penitenziaria accusati di quel pestaggio. La loro scelta (che pure è un diritto) di non aver mai voluto rispondere né da indagati, né da rinviati a giudizio, né da imputati su ciò che accadde in quei sotterranei. Se davvero Stefano era caduto dalle scale, perché non farne subito relazione? Perché non dirlo quando vennero sentiti una prima volta dai pm come testimoni? Perché non dirlo dopo, durante il processo? Né i giudici sembrano aver tenuto in gran conto la circostanza di per sé assai significativa che i pantaloni insanguinati di Stefano furono ritrovati solo tre mesi dopo la sua morte nascosti in un armadietto del Pertini. La dimostrazione, ammesso ce ne fosse bisogno, che sulla sua morte l’occultamento della verità cominciò nel momento esatto in cui fece il suo ingresso in ospedale.
Ma c’è di più. Alla memoria di Stefano, alla sua famiglia, all’opinione pubblica non è stata neppure risparmiata l’onta di una di quelle perizie di ufficio che, nel linguaggio degli “arcana” tipico degli addetti di scienza, rende regolarmente opinabile anche ciò che opinabile non appare non solo al buon senso, ma anche ai ricordi dei testimoni. Medici anche loro, che visitarono Stefano in tribunale, a Regina Coeli, al Fatebenefratelli e tutti concordi nel diagnosticare un corpo offeso da percosse. Già, la perizia. Un modo come un altro per alzare le mani. Per arrendersi all’imperfezione dell’accertamento di una verità altrimenti intollerabile. Eppure chiara come acqua di fonte. Stefano Cucchi è stato ucciso dallo Stato nelle cui manette aveva docilmente infilato i polsi. «Non è come nei film», lo aveva rassicurato un agente della polizia penitenziaria al suo arrivo a Regina Coeli. È vero. Ora sappiamo che può essere peggio.

La Repubblica 06.06.13