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"La flessibilità non è l'antidoto alla crisi", di Carlo Buttaroni*

La Contea del Fermanagh è una delle sei contee dell’Irlanda del Nord. È la più lontana dalla capitale Belfast e, con i suoi 55mila abitanti, anche la Contea meno popolata. Qui la crisi si è fatta sentire duramente. Moltissime attività hanno chiuso e la disoccupazione ha colpito le famiglie più che altrove, lasciando ferite difficili da rimarginare. In questo luogo, il 17 e 18 giugno si svolgeranno i lavori del G8, summit degli otto Paesi che rappresentano il 13% della popolazione mondiale e, soprattutto, pi ù del 53% della ricchezza globale. L’amministrazione locale ha scelto di ridurre questo contrasto così forte con una scelta shock: far diventare il percorso dei grandi della terra un set cinematografico degno di Hollywood. Poster e grandi adesivi raffiguranti scaffali ordinati e pieni di merce, famiglie sorridenti e impegnate a fare acquisti, Un inno alla finzione, un restyling surreale, la povertà nascosta con tecniche di fotomontaggio. Il caso, inevitabilmente, ha scatenato polemiche di ogni tipo. La reazione è piuttosto di sgomento e profonda riflessione. Quella che stiamo vivendo è la crisi economica più discussa, studiata e analizzata della storia. Ma sembra invisibile, impalpabile, nonostante statistiche e numeri ne proiettino l’ombra sulla quotidianità. Questo mettere la testa sotto la sabbia è stato anche fautore dell’affermarsi di teorie come, ad esempio, quelle che riguardano la flessibilità (del lavoro e dei salari) come antidoto alla crisi del mercato del lavoro e della crescita economica. Il 14 e 15 marzo scorso, parlando di fronte ai Capi di Stato e di governo dei 27 Paesi dell’Unione Europea, il presidente della Banca. Centrale Europea, Mario Draghi, ha espresso convinzione sulla necessità di uno stretto legame tra la dinamica delle retribuzioni reali e la produttività del lavoro, e che esso debba essere realizzato mediante una riforma della contrattazione collettiva che conferisca al contratto aziendale il compito di stabilire questa relazione. L’approccio di Draghi, senz’altro positivo, rimanda alla «regola aurea>, del periodo keynesiano del secondo dopoguerra, secondo la quale le retribuzioni reali devono crescere al pari della produttività del lavoro. Peccato che Draghi non volesse, però, riproporre il pensiero di Keynes, quanto evidenziare come i Paesi virtuosi e con i conti pubblici «in ordine>, abbiano fatto crescere i salari reali meno della produttività (riducendo, quindi, il costo del lavoro per unità di prodotto). Al contrario, quelli con i conti «in disordine”, hanno registrato una dinamica della produttività debole e anche una modesta crescita dei salari reali ha fatto crescere il costo del lavoro per unità di prodotto, riducendone la competitività. Per risolvere la crisi, quindi, occorre rendere più flessibili i salari. E naturalmente i lavoratori. Eppure, le analisi economiche delle istituzioni internazionali e gli stessi dati ufficiali (Oecd e E urostat) evidenziano che, negli ultimi venti anni, un po’ ovunque le dinamiche tra le due variabili siano state divergenti. La produttività è cresciuta (poco) e si è allontanata sempre più dai salari reali, che invece si sono mossi verso il basso. La soluzione al problema è individuata, ancora una volta, nella flessibilità, in particolare in quella contrattuale sui salari che dovrebbero indurre una crescita della produttività, o almeno una dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto tale da non ridurre la competitività. Un messaggio politico che attribuisce ai salari la responsabilità della mancata crescita della produttività. Un’interpretazione che confligge, però, con la letteratura scientifica che indica, invece, nell’innovazione il fattore fondamentale per la crescita della produttività, unitamente all’aumento della domanda aggregata. Come sempre la scarsa produttività del lavoro è strettamente associata alle norme che riguardano la protezione all’impiego. E qui c’è l’altra parte del messaggio: I Paesi con minori tutele fanno registrare dinamiche di produttività del lavoro più positive. Peccato che non vi sia traccia di una relazione significativa tra variazione dell’indice di protezione all’impiego e dinamica della produttività. Piuttosto sembrerebbe il contrario: riducendo l’indice di protezione all’impiego si attivano dinamiche meno favorevoli alla produttività del lavoro. I Paesi che hanno maggiormente ridotto le protezioni, infatti, sono quelli che mostrano dinamiche meno favorevoli, e ciò sembra riguardare soprattutto i Paesi europei, dove nell’ultimo decennio sono state avviate politiche per il lavoro che, in entrata, favoriscono forme contrattuali meno stabili, e in uscita, rendono meno costosi e più fattibili i licenziamenti. L’Italia è uno di quei Paesi dove la riduzione delle protezioni all’impiego è stata maggiore, e dove la produttività del lavoro ha visto una dinamica particolarmente negativa. Dalla fine degli anni Novanta sono state introdotte norme che hanno progressivamente ridotto le protezioni dei lavoratori eppure si è registrata una riduzione nei tassi di crescita della produttività. Il risanamento delle finanze pubbliche continua a essere l’unica priorità nonostante le ricette sinora diffuse non solo hanno dimostrato di non essere in grado di curare la malattia, ma sviluppano resistenze a ogni nuovo approccio che potrebbe contribuire a uscire dalla crisi. Si possono fare le riforme del mercato del lavoro, alzare o abbassare i tassi d’interesse, aumentare l’iva, mettere nuove tasse, istituzionalizzare l’equilibrio di bilancio, ma fino a quando non si cambierà modo di intendere lo sviluppo, il sistema sarà sempre soggetto a crisi cicliche, a oscillazioni, alla pressione dei mercati e alle speculazioni finanziarie. È possibile reagire al deterioramento economico e sociale solo percorrendo un cammino di riforme, fondato sul riconoscimento del valore del lavoro e dell’impresa, del welfare e dell’ambiente, del sapere e della giustizia sociale. Bisogna superare la logica quantitativa della produzione, usando criteri di valutazione innovativi: investire per produrre meglio, riducendo gli sprechi e aumentando l’efficienza con cui si usano le materie prime, a cominciare dall’energia. Recupero come parola d’ordine: ad esempio, con «piani casa» che puntino a recuperare gli edifici già costruiti, anziché a costruirne di nuovi; più infrastrutture sociali, più scuole, pi ù trasporti pubblici. La redistribuzione della ricchezza, dei diritti e dei poteri: sono questi i punti di forza su cui agire per costruire uno sviluppo solido e più giusto. Anziché ridurre le tutele nei confronti dei lavoratori, bisogna spostare il peso degli equilibri sociali dalla finanza all’economia reale, occorre assumere la salvaguardia e la qualificazione del sistema di Welfare come fattore di crescita, ridisegnando un ruolo attivo delle politiche pubbliche nel governo dell’economia. Se si pensa che la soluzione sia quella di realizzare negozi di cartapesta, con poster raffiguranti famiglie felici e botteghe piene, significa che è stato toccato il punto di non ritorno di un modello di pensiero non più sostenibile. Da qui, anche per l’Italia, un monito alle scelte da compiere. Osserviamo bene le sliding doors che ci danno l’anteprima del nostro futuro. E stiamo bene attenti a distinguere tra finzione e realtà.
*Presidente Tecnè

L’Unità 10.06.13