attualità, politica italiana

"Il Big Bang dei Cinque Stelle", di Piero Ignazi

I Parlamentari 5 Stelle si stanno avvitando in una spirale autodistruttiva. Potevano rappresentare un nuovo modo di fare politica. Fuori da rigidità burocratiche, correnti e portaborse. Tentativi di questo genere, a volte ingenui, a volte furfanteschi, sono stati fatti nel passato, ma in Italia hanno attecchito solo in piccoli gruppi. Con il travolgente successo del Movimento 5 Stelle nelle elezioni di febbraio sembrava che la “politica dei cittadini” entrasse nel Palazzo. Un’occasione irripetibile per imporre un nuovo modo di fare politica e di stare nelle istituzioni: come sbandieravano i grillini, i nuovi eletti si ponevano al servizio dei cittadini, della collettività e, addirittura, della nazione. Questa illusione è durata poco. Ed adesso siamo alla vigilia del Big Bang.
Come si sia arrivati a questo, non dipende certo dal desiderio di arricchimento dei vari parlamentari, versione contemporanea del tradimento di classe lanciato contro chiunque, in tempi lontani, abbandonava i partiti storici della sinistra, a incominciare da quelli comunisti. In effetti, è sorprendente come, anche nell’era postmoderna, e in movimenti che si voleva esprimessero lo spirito di questi tempi, risuonino accuse così antiche, e tutto sommato risibili.
Alla radice dello scontento dei grillini c’è invece un problema antico come la politica: la pulsione al comando senza limiti da un lato, e il desiderio vitale di esprimere le proprie opinioni, dall’altro. Il delirio di onnipotenza che ha travolto Beppe Grillo lo ha portato ad una logica saturnina di divorazione continua e insaziabile dei propri figli. Tutto ciò non è nuovo, anzi. Ci rimanda ai momenti di grande trasformazione, alle rivoluzioni in cui il leader “deve” eliminare i dissidenti e purificare il corpo sano del partito per lasciar spazio ai veri credenti. In questo il M5S assume veramente il connotato di un movimento rivoluzionario. Solo che la sua energia trasformativa l’ha rivolta verso se stesso, dimenticando tutto quello che esiste al di fuori. Le aspettative di cambiamento, sia sul piano programmatico, con proposte precise e concrete, sia nell’adozione di uno stile politico aperto, dialogico e franco, ripulito dalle incrostazioni di questo ventennio, sono andate deluse.
Si possono trovare le cause di tutto questo nell’egocentrismo di Grillo, nel successo troppo violento e ingestibile, nell’improvvisazione della struttura organizzativa, nella pochezza e inesperienza degli eletti. Ma se il M5S è arrivato a questo dipende anche dal fatto che non ci sono linee guida a cui un partito deve attenersi. In Italia ogni proposta di legge sui partiti fa gridare allo scandalo come se si volessero limitare le libertà politiche fondamentali. È ora di superare questo atteggiamento, comprensibile nel primo dopoguerra, del tutto fuori posto ora. In tutti i paesi democratici, e soprattutto in quelli di recente democratizzazione dell’Europa centroorientale, sono state adottate norme sul ruolo e sul funzionamento dei partiti. La ragione è semplice. Si vuole garantire una effettiva democrazia interna ai partiti per mettere al riparo i partiti stessi, e come side-effectanche
il sistema politico, da tentazioni autoritarie o cesariste. In Germania, paese che per primo ha introdotto una legge sui partiti, chi non si adegua ai principi democratici non solo viene penalizzato finanziariamente con il blocco dei fondi pubblici (che sono previsti, e in abbondanza) ma, in caso di gravi violazioni, viene poi sottoposto alle restrizioni previste dall’ufficio per la Protezione della Costituzione del ministero dell’Interno. L’autonomia organizzativa dei partiti non è certo limitata da norme generali concepite al solo scopo di garantire diritti di espressione e procedure democratiche interne. Quello che viene tenuto sotto controllo è la pulsione autoritaria della leadership. Una pulsione che è quasi naturale e che può quindi avere bisogno di essere imbrigliata dall’esterno. Fin qui i partiti italiani non ci sono riusciti ed anzi sono scivolati verso forme organizzative che oscillano dal cesarismo (Gianfranco Fini ai tempi d’oro di Alleanza nazionale) al plebiscitarismo carismatico (Umberto Bossi e Silvio Berlusconi), fino al personalismo in sedicesimo di Antonio di Pietro. E adesso tocca al M5S.
La sua deriva autoritaria dimostra che il virus del comando senza freni alligna ancora. A questo punto servono norme che impediscano l’ulteriore discredito della politica. Se anche chi si poneva come l’antidoto alla vecchia politica crolla così, la disaffezione salirà alle stelle. Intervenire con la forza della legge per ripristinare regole di “agibilità” democratica nei partiti è una necessità vitale per un migliore funzionamento del nostro sistema.

La Repubblica 19.06.13