attualità, politica italiana

"Meno tasse non è un tabù", di Ruggero Paladini

La pressione fiscale è al 44% o al 53%? Come disse Shakespeare: «as you like it». Se rapportiamo le entrate fiscali al Pil (calcolato dall’Istat) abbiamo nel 2012 il 44%. Se però argomentiamo che il 17% del Pil è composto da attività sommerse, allora rapportando il 44% a 1-0,17 otteniamo il 53%. Ovviamente anche il più incallito evasore qualche imposta finisce per pagarla, l’Iva per esempio, visto che dovrà pur mangiare, o l’Imu, difficile da evadere. Inoltre il dato statistico serve per considerazioni macroeconomiche, per confrontare Paesi diversi o lo stesso Paese nel tempo, ma non esiste un’imposta unica sul Pil. Abbiamo invece imposte dirette e indirette, contributi sociali (quelli previdenziali andrebbero considerati come risparmio obbligatorio più che imposte), imposte erariali e degli enti locali, e così via. Ogni imposta ha una sua base imponibile, e quindi una diversa pressione. Per esempio se prendiamo il più importante prelievo, l’Irpef, troviamo (nel 2012) un rapporto tra imposta netta e reddito imponibile del 19,7%. Nel 2007, anno in cui l’Irpef fu modificata, assumendo la struttura che ha ancora oggi, l’analogo dato era del 19,2%.

Ma i 41 milioni di contribuenti Irpef hanno ognuno una pressione diversa, che è zero per un quarto di essi, e che per lo 0,08% (circa 32.000 contribuenti con reddito superiore a 300.000 euro), arriva al 41,2%. Quale è la pressione fiscale sulle imprese? Consideriamo due società, una che ha utili per 100 ed una che ha una perdita di 20. La prima versa un Ires di 27,5, la seconda non versa nulla (e riporta in avanti la perdita, nella speranza di poterla recuperare dagli utili futuri). Se facciamo la somma algebrica tra i +100 ed i -20 e rapportiamo l’imposta di 27,5 otteniamo una pressione di 34,4% (e questo, direbbe Confindustria, senza considerare l’Irap e l’Imu). Ma in realtà una società ha pagato il 27,5% l’altra zero. Insomma, con le percentuali possiamo giocare a «cicero pro domo sua».
In un anno la pressione è salita di un punto e mezzo, dal 42,5% al 44%. Quello che è indubitabile è che in un anno di profonda recessione le entrate sono aumentate di oltre 17 miliardi, quasi tutti dovuti alla manovra «Salva Italia» sull’Imu. La recessione innescata dalla manovra, ampliata dal credit crunch e dal rallentamento europeo, ha fatto cadere altre entrate, ma l’effetto netto è stato in aumento. Da notare che dei circa 15 miliardi di Imu solo 4 sono quelli derivanti dalla reintroduzione della «prima casa», e questi 4 miliardi sono divenuti la bandiera di Berlusconi, oltre agli altri 4 (a regime) che deriverebbero dall’aumento dell’Iva dal 21 al 22%. Non c’è dubbio che l’aumento dell’Iva vada evitato, in un momento in cui la fase recessiva non accenna a rallentare. È difficile dire quali margini di manovra abbia il governo, che vuole rispettare il 3% di deficit; governo che ha di fronte a sé il rialzo dello spread a causa delle iniziative della Corte Costituzionale tedesca di valutare le misure approvate dalla Bce di Draghi (le Outright monetary transactions). Ma se emergessero delle risorse non c’è dubbio che dovrebbero essere usate per ridurre l’Irpef. Questa imposta grava in modo sproporzionato su lavoratori dipendenti e pensionati; una riduzione, concentrata nella fascia dei redditi tra 10.000 e 25.000 euro, costituisce un’iniezione di potere d’acquisto che verrebbe speso in misura nettamente maggiore di quanto avverrebbe con l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa.

In effetti in questo momento considerazioni sugli effetti macroeconomici e sugli aspetti redistributivi si legano bene insieme. Vi è necessità di interventi che sostengano il reddito disponibile dei redditi medio-bassi, la cui propensione al consumo è vicina al 100%; tra questi la riduzione dell’Irpef è sicuramente una carta da giocare, anche se non è l’unica. Vi sono infatti oltre 10 milioni di contribuenti a zero Irpef, con remunerazioni talmente basse (sempre che le abbiano) da avere imposta netta nulla. L’imposizione immobiliare va invece riorganizzata per renderla più equa, ma certamente non va distorta per favorire la demagogia della destra.

L’Unità 21.06.13