attualità, politica italiana

"L’eredità di Berlusconi", di Maria Cecilia Guerra

Una strana situazione quella in cui si trova il governo Letta, costretto a cercare risorse per scongiurare l’aumento dell’Iva. Ma da dove viene questo aumento dell’Iva che nessuno vuole? È una storia molto complessa, ma emblematica, che è bene non dimenticare. Per ripercorrerla occorre ritornare al maggio-giugno 2011, quando la sconfitta alle amministrative, prima, e ai referendum, poi, segnarono l’inizio della fine del governo Berlusconi. Il Pdl cercò di reagire alla sconfitta con la bandiera delle tasse, imponendo a Tremonti, additato come rigido guardiano dei conti pubblici, una proposta di «riforma fiscale» confusa, imprecisa e contraddittoria, ma che faceva balenare l’idea di tagli, soprattutto Irpef, per tutti. A questa delega venne poi giustapposta, alla fine di giugno, un ulteriore pezzo di «riforma assistenziale», che avrebbe dovuto finanziare la prima, quella fiscale, con tagli alle prestazioni sociali.
Ma ormai neppure il governo Berlusconi, che l’aveva tenacemente negata, poteva evitare di considerare gli effetti che la crisi stava esercitando sui conti pubblici. Parte quindi il tormentone delle manovre estive del 2011. Il governo in carica fatica a scegliere su chi e come scaricare i costi delle manovre che pure è costretto a fare.
È in questo contesto che appare la sorpresa: alla delega fiscale-assistenziale viene aggiunto una norma finale che prevede che dal riordino della spesa sociale e dalla «eliminazione o riduzione dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale che si sovrappongono alle prestazioni assistenziali» devono derivare almeno 4 miliardi di euro per il 2013 e 20 miliardi di euro annui a decorrere dal 2014. Sono miliardi che di fatto non esistono: non è pensabile di ricavare 20 miliardi da una spesa sociale che è in Italia, complessivamente, di poco superiore ai 60 miliardi. Né è possibile pensare di ricavarli da una delega fiscale nata per ridurre e non per aumentare le imposte.
Ciononostante questi 20 miliardi vengono contabilizzati come maggiori entrate nella manovra attuata con il decreto legge 98/2011 del 6 luglio. Il decreto dispone infatti una copertura a futura memoria, assistita da una clausola di salvaguardia: se il governo (il governo che verrà)non troverà, entro il 30 settembre 2013, questi 20 miliardi attraverso i tagli al sociale ipotizzati dalla delega fiscale-assistenziale, i soldi si troveranno con un taglio lineare (del 5% nel 2013 e del 20% a decorrere dal 2014) di tutte le agevolazioni fiscali. È bene ricordare che più di metà di queste «agevolazioni» sono date dalla somma di solo tre tipologie: le detrazioni per redditi di lavoro e pensione, quelle per carichi familiari e le aliquote ridotte Iva per i beni di prima necessità. Il conto dei tagli di queste agevolazioni (che avrebbe quindi comportato anche un aumento delle aliquote ridotte dell’Iva dal 4 al 4,8% e dal 10 al 12%) sarebbe ricaduto prevalentemente sulle famiglie più povere, sui nuclei con figli, e, per quanto riguarda l’Iva, anche sui ceti medi.
Il tutto viene poi anticipato di un anno, con la manovra del 13 agosto dello stesso anno (decreto-legge n. 138 del 2011). La copertura prevista si arricchisce però di una ulteriore possibilità: in alternativa ai tagli lineari delle agevolazioni e ai «risparmi» della delega fiscale-assistenziale, è ipotizzato anche un aumento delle aliquote delle imposte indirette, incluse le accise. È bene ricordare che, con lo stesso decreto legge di agosto 2011, nel frattempo, si aumenta comunque l’aliquota dell’Iva dal 20 al 21%.
Il governo Monti, subentrato a quello Berlusconi a metà novembre 2011, si ritrova con questo problema da dirimere. Con il decreto Salva Italia del 6 dicembre 2011 trova coperture per circa 4 dei 20 miliardi ballerini. Mantiene la scadenza del 30 settembre 2012 per trovare quelli mancanti, ipotizzando che li si possa trovare non già con un taglio lineare delle agevolazioni ma, piuttosto, con una loro razionalizzazione, e prevede come clausola di salvaguardia l’incremento delle aliquote Iva in due tempi, di cui il primo a decorrere dal 1° ottobre 2012. Ritira la delega fiscale-assistenziale, ma lascia sempre, come possibile copertura alternativa all’aumento dell’Iva, il taglio alle spese sociali già ipotizzato dal governo Berlusconi.
Con il successivo decreto legge95 del 6 luglio 2012il governo Monti interviene nuovamente, sia riducendo l’esigenza di copertura (che viene abbassata a 6,56 miliardi annui a decorrere dal 2013) sia modificando la tempistica degli aumenti dell’Iva (posticipandone il primo incremento al 1 luglio 2013). Rimanda poi alla legge di stabilità 2013 l’indicazione delle misure che possono evitare questo aumento dell’Iva, con la spending review o con i tagli alla spesa sociale o con i risparmi derivanti dal riordino di enti ed organismi statali.
E’ proprio per effetto delle norme contenute nella legge di stabilità per il 2013 chel’aumento dell’Iva sull’aliquota ridotta, inizialmente prevista, viene scongiurato e quello sull’aliquota ordinaria viene ridotto dai due punti ipotizzati ad uno solo, dal 21 al 22%, a partire dal primo luglio 2013. Nel frattempo, la legge delega fiscale prevista dal governo Monti, che prevedeva la famosa razionalizzazione delle agevolazioni fiscali, nonché la revisione delle rendite catastali, è stata bloccata in Parlamento dal Pdl.
E qui siamo. Il cerino è ora nelle mani del governo Letta.

L’Unità 24.06.13