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“La bella Italia che vorremmo”, di Michele Serra

Una ricercatrice, un Nobel per la fisica, un direttore d’orchestra, un architetto. Tutti e quattro di fama mondiale. Per dare lustro alle istituzioni il presidente della Repubblica non ha scelto neppure un politico. Come se il solo possibile antidoto all’idea depressa che l’Italia ha di se stessa fosse cambiare radicalmente prospettiva.
Volgere le spalle ai palazzi del potere e cercare il valore nelle avventure individuali di italiani operosi ed eccellenti.
Artisti e scienziati spesso capiti e apprezzati prima all’estero che in patria.
Al di là dei nomi dei quattro senatori a vita (il cui calibro è comunque cento volte maggiore di molti degli esponenti politici che ne commentano la nomina), nella scelta di Napolitano ciò che colpisce è questo compatto rivolgersi “altrove”, a un’Italia cosmopolita e dunque sprovincializzata, che ha vissuto, lavorato, avuto fama e successo a distanza siderale dalle beghe miserabili che paralizzano la vita nazionale, e che cento metri oltre i nostri confini paiono insignificanti, penosi dettagli rispetto al battito del mondo. Che magari sa cosa accade a Parigi o a Londra o a Tokyo, meno che cosa succede a Roma, specie quando ciò che succede a Roma è così poco intellegibile. La sproporzione tra la fama e il peso culturale dei nuovi senatori e la media della rappresentanza parlamentare (anch’essa “nominata”, grazie al Porcellum: ma con quanto merito in meno!) assume, indirettamente, quasi il significato di una denuncia. La denuncia della crisi paurosa della politica, dell’incepparsi patologico dei meccanismi di selezione della classe dirigente attraverso la via più diretta, che è o meglio sarebbe quella elettorale.
Molti dei commenti politici di ieri rimandano, purtroppo, a questa mediocrità. Quasi incredibili, nella loro pochezza da ragionierino astioso, le parole del senatore delle Cinquestelle Alberto Airola, molto seccato perché i quattro neo-nominati «saranno stipendiati a vita senza essere stati eletti da nessuno e saranno i lacché delle larghe intese». Come se Piano e Abbado avessero bisogno, per vivere, di uno stipendio pubblico; e come se il tragitto che ha condotto all’elezione la quasi totalità dei grillini, spesso poche decine di voti cliccati su un sito web ben controllato e filtrato, avesse un qualunque, percepibile significato di democrazia diretta. Chissà se chiederanno gli scontrini del cappuccino, i cinquestellati, anche a Renzo Piano, per altro buon amico di Beppe Grillo.
Stendiamo un velo pietoso sulla dichiarazione della signora Santanché («il solo che doveva essere nominato senatore a vita è Berlusconi»: poco più, anzi poco meno di una battuta di spirito). Ma è impossibile tacere della ciancia meschina, da angiporto della politica, capace di leggere in quelle quattro nomine (e in quei quattro profili italiani) il tentativo di offrire una stampella alle larghe intese. Bisognerebbe spiegare ai tanti parlamentari abituati al piccolo cabotaggio tattico, e qualcuno purtroppo anche alla messa all’asta del proprio voto, che esiste anche un mondo normale. Dove i loro discorsi, i loro sospetti, i loro calcoli paiono trascurabile fanghiglia, e contano zero. Immaginare un Rubbia o una Cattaneo che tramano pro o contro il governo Letta (o pro o contro chicchessia) equivale ad avere perduto il vaglio delle cose, la misura della realtà.
Certo, come accaduto anche in passato, è rintracciabile, nei profili dei nuovi senatori a vita, specie Abbado e Piano, “qualcosa di sinistra”. Ma questo rimanda a una annosa, penosissima questione, che è la gran fatica con la quale “la destra”, genericamente intesa, produce i suoi intellettuali, i suoi artisti, i suoi personaggi illustri. In attesa di udire la solita solfa contro “i comunisti” Abbado e Piano, o le velenose insolenze che colpirono un gigante come la Montalcini, è più serio e più proficuo registrare l’enorme difficoltà che qualunque presidente italiano avrebbe nello scovare e nominare senatori a vita francamente di destra. Non è questo lo spirito con il quale si procede a quelle nomine; ma si può capire che un poco di par condicio in più aiuterebbe a rendere ancora più limpida, ancora più condivisa l’investitura dei senatori a vita. La battuta della signora Santanché ci fa capire quanto manchi, al nostro Paese, una destra di alto profilo.

La Repubblica 31.08.13