attualità, politica italiana

“La tempesta perfetta”, di Nicola Cacace

Un Paese che resta senza governo in una crisi sociale come questa è come una nave che resta senza timone nel pieno di una tempesta. Le speranze che non affondi si riducono a pochi spiccioli di probabilità. Questa immagine dovrebbero avere davanti agli occhi quanti in queste ore hanno la responsabilità ed il potere di evitare la crisi di governo.
Qui non si tratta più di Imu e di Iva, cose pur importanti al cui confronto le nuove problematiche sono milioni di volte più importanti, qui si tratta del sangue e della carne di milioni di italiani, dai giovani senza futuro che guardano oltre frontiera ai milioni senza lavoro e senza cassa integrazione, dal 30% delle famiglie del Sud che navigano in mare di povertà ai milioni di famiglie di Nord, Centro e Sud, che già non arrivano a fine mese, dai milioni di artigiani che lottano per non chiudere alle grandi aziende in crisi o in cassa integrazione, Ilva, Terni, Merloni, Fiat, dalle migliaia di piccole imprese strozzate da scarsa domanda e crediti zero alle grandi aziende che sono già diventate o stanno per diventare straniere, Telecom, Alitalia – al proposito voglio dire «meglio mani straniere competenti che imprenditori italiani furbetti ed incapaci».
Qui non si tratta più solo del milione di esodati che da Fornero in poi non sanno più come sopravvivere cinque anni senza paga e senza pensione, ma dai più di centomila giovani di élite che già oggi annualmente lasciano un Paese ingrato e stupido per arricchire praterie straniere. E per il Paese più vecchio del mondo come l’Italia, che da decenni ha dimezzato le nascite, da un milione a mezzo milione l’anno, questo flusso delle poche energie giovani ed acculturate che non si riesce ad impiegare decentemente in casa è il peggior delitto che un paese possa compiere, non solo verso i giovani ma verso se stesso!
Il bilancio della classe dirigente degli ultimi decenni, Berlusconi in testa, è stato così fallimentare che basta il dato dell’occupazione per dimostrarlo. L’Italia riesce ad occupare solo il 55% della sua popolazione in età di lavoro, mentre l’Europa ne occupa il 65% ed i Paesi nordici vanno addirittura oltre il 70%: in pratica da noi si costringono almeno 4 milioni di cittadini a restare inattivi, una cifra che si deve appunto ai 10 punti di differenza rispetto al tasso di occupazione europeo.
Anche se questo buco enorme di occupati dipende in gran parte dalla stupidità dei nostri dirigenti, imprenditori, politici ed anche sindacalisti, che mentre in altri Paesi si prendevano decisioni per redistribuire il lavoro disponibile, che è sempre meno per i bassi tassi di crescita delle economie avanzate e l’elettronica che brucia più posti lavoro di quanti ne crea, da noi si faceva il contrario, defiscalizzando gli straordinari (mentre in Germania lo sostituivano con la banca delle ore, in Francia con le 35 ore, in Olanda col part time, etc.), il problema non cambia. C’è solo la stranezza che nel Paese dei disoccupati si fanno lavorare i «pochi fortunati» quasi 1800 ore l’anno, mentre nei Paesi della quasi piena occupazione i «molti fortunati» lavorano meno di 1500 ore. E questo significa almeno 3 milioni di occupati in meno se avessimo gli stessi orari.
Se ad una nave già abbastanza scassata come l’Italia, Paese vecchio ed a bassa innovazione (a differenza della Germania che è vecchia come noi ma molto più innovativa) si toglie anche il timone del governo, in un mare in tempesta come questo, ogni possibilità di approcciare un porto di salvezza si vanifica.

Oltre a tornare di nuovo sotto il tallone di Bruxelles per i conti, chi non fa tutto il «decoroso» possibile per non lasciare la nave senza timone nel mare in tempesta si prende la responsabilità storica di accelerare le pene e la fine di un Paese già sofferente.

Qui non si tratta solo di ridurre l’esodo dei giovani migliori, di aiutare gli esodati a raggiungere vivi l’agognato porto della pensione, di ridurre le pene di operai ed imprenditori, di aiutare milioni di famiglie in povertà nera, di abbozzare un minimo di politica industriale per salvare in extremis quel poco rimasto.

Qui si tratta di salvare, meglio di non peggiorare le pene dell’Italia che soffre, quei due terzi di 61 milioni di cittadini che la crisi ha già molto impoverito, mentre l’altro terzo diventava più ricco, quell’Italia dei tanti bisogni che ogni giorno papa Francesco ci ricorda di mettere in testa al nostro impegno civile e politico.

L’Unità 01.10.13