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“La debolezza dei poteri forti”, di Massimo Mucchetti

Alitalia al collasso, Telecom Italia a rischio di spoliazione, Finmeccanica e Ansaldo che faticano ad arrivare a un divorzio consensuale, le banche divenute scalabili dalle consorelle estere che hanno avuto uno Stato amico. E ancora: la Fiat che sta subendo la (comprensibile) resistenza dei sindacati americani in Chrysler e fa i conti con le sue finanze scarse. La Cassa depositi e prestiti invocata su tutti i fronti e dunque bisognosa di ripensare la propria funzione o di sottrarsi una volta per tutte a questi appelli. Il vento freddo della crisi di governo, aperta virtualmente da Silvio Berlusconi, congela la difesa della base industriale e dello scheletro finanziario del Paese e apre spazi fino a ieri chiusi ai poteri forti. Che non sono più italiani ma internazionali: francesi, spagnoli, americani, mediorientali, cinesi.

Poteri forti è un’espressione suggestiva coniata dai giornalisti e dai politici, spesso a corto di fantasia, per indicare alcune società private – Fiat, Pirelli, Ri- va, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mediobanca, Generali e poco altro – e alcune società pubbliche – Eni, Enel, Finmeccanica – o meglio i loro top manager non di rado capaci di «comprarsi» il consenso di una politica imbelle che li deve nominare. Mentre le società a partecipazione statale per lo più bastano a se stesse, le grandi imprese private sono deboli o scalabili anche se con i bilanci in ordine. Al- la fine degli anni Novanta, quando venne approvata la legge Draghi (cioè il Te- sto unico della finanza), la contendibilità era considerata un valore in sé. Si riteneva che la mobilità del controllo sbloccasse per il meglio le situazioni consoli- date negative. A questo valore si è subordinata anche la difesa degli interessi dei piccoli azionisti, che nelle grandi società quotate detengono la grande maggioranza del capitale ma non esercitano nessun potere. Non a caso, la legge Dra- ghi fissa al 30% secco la soglia oltre la quale scatta l’obbligo dell’Opa.

Il legislatore era consapevole che si sarebbe così permesso il passaggio del controllo attraverso l’acquisizione strapagata di partecipazioni inferiori alla soglia ufficiale senza nulla dare al resto della compagine sociale. Obbligare a fare l’Opa anche all’acquisizione, diretta e in- diretta, del controllo di fatto, che può esserci anche con il 15% delle azioni (vedi Generali) o con il 22% (vedi Telecom Italia), avrebbe scoraggiato quanti volevano sì conquistare queste società, ma non avevano i mezzi per un’Opa rivolta a tutti gli azionisti o, quand’anche li avessero avuti, non avrebbero avuto voglia di impegnarli.

La storia di questi 15 anni ha dimostrato come il favore accordato alla contendibilità derivasse da un pregiudizio ideologico. Non di rado i «padroni» sono da licenziare, ma spesso chi li accompagna all’uscita non è migliore. Proprio la storia di Telecom Italia, che l’altro ieri Brunetta ha ben riassunto sul Giornale facendo proprie analisi fatte «da sinistra», conferma il punto: dopo la privatizzazione l’impresa è andata di male in peggio. Ricordo il banchiere Vincenzo Maranghi che mi diceva: «Tronchetti non può fare l’azionista di Telecom; questa società ha bisogno di soci che quando si tratta di metterci un miliardo non tremano». Al dunque, Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Generali tremano anche per tenersi la partecipazione.

La storia di Fiat dice che nessuno è intervenuto per conquistarla e migliorarla, e sì che era quasi fallita. E ora sta spostando all’estero il baricentro produttivo non alla tedesca ma, tristemente, all’italiana. Talvolta accade che nel mercato finanziario si selezioni la proprietà migliore, ancorché senza Opa. Penso alla soluzione del caso Impregiloco del caso Fonsai. Tal’altra no. Vedi, appunto, Telecom. Ovvero la triste sorte di cessioni a soci esteri, da Telettra a Terni. E domani, quando Tronchetti venderà la Pirelli, che accadrà? La prenderà qualcuno capace di svilupparla o qual- che avvoltoio che troverà più conveniente uno spezzatino e il trasferimento all’estero delle tecnologie? E che cosa dovremmo pensare se le grandi banche italiane, dove le fondazioni sono in affanno, fossero preda di banche estere salva- te e rilanciate dai propri governi e assistite da un merito di credito migliore per effetto del rischio Paese?

Al Senato, sulla scia del caso Telco-Telecom, si è aperta una riflessione sulla legge sull’Opa. Si va formando un consenso largo sull’idea di inserire una doppia soglia per l’obbligo di Opa: il 30% e il controllo di fatto, facilmente accertabile dalla Consob copiando la legge spagnola e senza alcun problema con la Ue. In questo, come in altri casi, la tutela dei piccoli risparmiatori e degli investitori istituzionali renderebbe più difficile, perché più costoso, il passaggio del controllo a un soggetto, Telefonica, interessato a congelare Telecom Italia e a spolparla. E non ci si venga a dire che in tal modo respingeremmo un investimento estero, perché mettere 850 milioni per comandare su un’azienda da 11 miliardi ante Opa è qualcosa di diverso e perché i capitali internazionali investiti direttamente in Telecom non sono meno importanti di quelli messi da Telefonica in Telco. Ma senza un governo diventa arduo aggiornare la legge sull’Opa benché lo si potrebbe fare senza effetti retroattivi, come ha precisato la Consob.

Si può star certi che Cesar Alierta tifa per Berlusconi: senza governo si porta a casa il malloppo a prezzo vile. E senza governo come si impedirà che Alitalia, ormai tecnicamente fallita, non finisca a fare da compagnia di mero federaggio di Air France a un prezzo ancora più vile? E come funzioneranno i rapporti tra la Cassa depositi e prestiti e Finmeccanica, entrambi soggetti a controllo pubblico e dunque parti correlate tra loro, se il comune azionista viene messo fuori gioco dall’assenza di un esecutivo? Se questa crisi si rivelerà, alla fine, una malattia della crescita, l’impegno assunto dal premier Letta a rilanciare la politica industriale potrà coniugare gli interessi del mercato finanziario diffuso con quel- li delle aziende. Viceversa saranno altri a brindare sui resti della grande impresa storica italiana.

L’Unità 02.10.13