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“Sono loro il nostro prossimo”, di Adriano Sofri

Ci si può commuovere tutti i giorni, o c’è bisogno di una pausa, di una tregua – non so, una settimana, almeno un paio di giorni – fra una tragedia e l’altra? O commuoversi comunque quando la cifra dei morti è così esorbitante? Quando ci sono i bambini (le donne incinte ci sono sempre), e c’è ogni volta un dettaglio nuovo. Questa volta è il fuoco acceso dentro una carretta con 500 persone, come accendere un falò in un autobus all’ora di punta, con le porte che non si aprono. Riescono sempre a procurarsi un dettaglio nuovo, queste disgrazie. A Catania è in rianimazione il migrante eritreo scampato a tutto, anche alla spiaggia di Sampieri coi cadaveri allineati dei suoi compagni, e investito da un’auto. I dettagli di ieri saranno troppi per raccoglierli, i soccorritori pensano a soccorrere, magari piangendo, e i superstiti, una volta rifocillati e sbattuti in qualche Centro di Indifferenza ed Espulsione, non saranno più interessanti, coi confini spinati e i deserti e i mari che hanno attraversato, i cadaveri che hanno urtato, le preghiere che hanno pregato. Non avranno voglia di raccontarlo, e non troveranno chi abbia voglia di starli a sentire. Guarderanno l’Isola dei famosi,
la sera, e capiranno tutto.
Dunque si è quasi offesi, da una giornata simile: centinaia di morti, l’ennesima, più lunga fila di sacchi da monnezza, non si può pretendere che ci commuoviamo ogni giorno che Dio manda, perbacco, e all’indomani di un allegro rilancio del governo, che prima era di necessità e ora è d’amore e d’accordo. Che c’entra il governo con la strage della barcaccia? Niente, appunto. Niente e nessuno, c’entra. È stata una disgrazia. Cioè: il cinismo degli scafisti, l’imprudenza dei passeggeri, il panico di tutti. I superstiti non presentavano problemi molto gravi, ha detto un bravissimo medico, qualcuno aveva bevuto, con l’acqua salata, parecchia nafta. Non c’entra nessuno, accusare, inventarsi dei colpevoli, è un lusso da salotto. (I leghisti sanno di chi è la colpa: di due signore). Però il papa ha detto: è una vergogna. Allora bisogna che qualcuno si vergogni, o che ci vergogniamo tutti. Di che cosa? Di tutto: della guerra civile in Siria, del mattatoio somalo, della violenza nigeriana che ricaccia indietro i ghanesi. Ah, va bene, campa cavallo! Vediamo più da vicino, allora. Controllare meglio quel tratto di mare? Ci sono occhi meccanici cui non sfugge un branco di sardine. Chi se ne intende dice che il lavoro che fanno la nostra capitaneria, la marina militare, la guardia di finanza, i
e anche i mezzi mercantili e da diporto è ammirevole, che i radar non bastano a vedere tutto, soprattutto con imbarcazioni piccole e mare mosso e sottocosta. Bene: eppure qualcosa occorre fare. Perché ieri non eravamo solo commossi fino alle lacrime, ma anche esasperati e furiosi. Perché anche piangendo, si pensa. Si pensa che in Giordania, in Libano, in Turchia, in Iraq, ci sono oggi un paio di milioni di profughi siriani, e da noi ne sono arrivati due o tremila; cui vanno sottratti – 250, 300? – quelli di ieri. Si pensa che due giorni fa sono state pubblicate le nuove cifre sugli immigrati in Italia, e quattro su dieci si propongono di tornare a casa o andare altrove, e molti l’hanno già fatto. Si pensa che in Grecia, tanto più povera di noi, e tanto sorella nostra –“stessa faccia, stessa razza”- gli immigrati dall’Europa orientale e dall’Asia e dall’Africa entrano per terra e per mare in numero assai superiore ai nostri, e poi ci restano chiusi, in omaggio a Dublino, in balia dei nazisti di Alba Dorata.
E poi, si pensa alle obiezioni di chi, anche in mezzo a tutti questi morti –
“una marea di cadaveri”, ha detto ieri un soccorritore, promuovendoli involontariamente a creature marine, quei viaggiatori che non sapevano nuotaretiene a restare, secondo lui, freddo e lucido. “Non possiamo mica accogliere tutti i fuggiaschi del mondo”. No, infatti, non possiamo. Ma non stanno arrivando tutti i fuggiaschi del mondo. E ragionevole prevedere che ne arriveranno molti di più. Siccome ci si compiace a credere che l’alternativa sia fra buonismo e cattivismo, e chi non è né buonista né cattivista possa solo raccomandare l’anima e il corpo altrui a Dio, proverò a rispondere. Ammettiamo pure il caso più ottuso: che siate rigorosamente contrari all’immigrazione, che ve ne fottiate di tutte le avvertenze (“ma i nostri nonni, e il padre del papa Francesco, sono emigrati…”; e “gli immigrati oggi coprono il 10 per cento del Pil italiano”, e così via). Bene. E ammettiamo ora che voi, i del tutto contrari, stiate bordeggiando sotto l’isola dei Conigli, e avvistiate una disgraziata che viene da Aleppo o da Samaria e che agita le braccia e annaspa: o la soccorrete, o no. Se non la
soccorrete, siete davvero coerenti con la vostra convinzione, e il diavolo vi porti: l’avete meritato. Se la soccorrete, com’è infinitamente più probabile, non avrete affatto ripudiato la vostra convinzione, avrete saputo che c’era una cosa più importante. Che quando succede proprio a voi di imbattervi nella persona in pericolo, che da voi dipende la sua salvezza, le convinzioni politiche o demografiche si eclissano, e senza riflettere un momento lanciate il vostro salvagente o la vostra cima. (E non voglio ancora completare l’esempio, sicché succeda a voi di annaspare e agitare le braccia, venendo da Bergamo Alta, ed essere soccorso da una carretta di scafisti siriani). Questa non è la soluzione, ma è una gran parte della soluzione. La soluzione implica che in Siria finisca la guerra civile, che Dublino 2 non metta in croce la Grecia, che la Germania non si scandalizzi per l’arrivo di sbarcati a Scicli o a Riace, che l’Europa sia l’Europa. Cose grosse. Si possono affrontare, anche se sembrano così grosse. Ma intanto c’è la gran parte della soluzione, che consiste nel comportarsi seriamenpescherecci
te, efficacemente, come si fa col disgraziato in cui vi siete imbattuti. Per esempio, quando in uno scampolo d’estate vi capita di fronte una di quelle barche di disperati, su una spiaggia siracusana o ragusana, o calabrese o pugliese, e fate una catena umana. Una catena umana –è gran parte della soluzione. Ma sarebbe ipocrita lasciarla al caso. Se il samaritano avesse saputo che tutti i giorni, sulla famosa strada, i briganti lasciavano tramortito un passeggero, avrebbe chiesto alla polizia di occuparsi dei briganti, e intanto avrebbe improvvisato con altri volontari il pronto soccorso a quell’angolo di strada. Tutti i migranti che si mettono in viaggio alla nostra volta, e pagano caro il biglietto per la morte o la vita, tutti, sono il nostro prossimo: che siamo buoni o cattivi, che vediamo di buon occhio o furibondo la questione dell’immigrazione. Per questo è così odiosa, oltre che criminale, la politica dei “respingimenti”. Li respingi nei campi libici, a essere violati e bastonati e venduti. Li respingi “a casa loro”, dove gliela faranno pagare con la tortura e la pelle. E soprattutto li respingi: agitano
le braccia, annaspano, gridano aiuto proprio a te, e li respingi.
Perché questo non avviene, non abbastanza? Dobbiamo dirlo chiaramente. Perché le autorità, essendo responsabili (ciò che per molte di loro vuol dire ciniche) preferiscono un migrante annegato a un clandestino vivo che si aggiri per l’Europa. Un anonimo morto a un rifugiato vivo. Lo preferiscono, davvero, magari non dicendoselo così chiaro: se no non lo farebbero. Pensano (infatti pensano): “Se questi disperati arrivassero tutti vivi, sempre più disperati sarebbero incoraggiati a venire”. Bene: se pensano così, anche se non se lo dicono, stanno favorendo le stragi come quella di ieri, “magari non così grosse, non tanti in una volta”. Ciascuno, autorità o persona comune, può liberamente decidere che cosa pensa dell’immigrazione e dei migranti in carne e ossa –il nostro prossimo. Ma bisogna che sappia che cosa sta decidendo, e ne segua le conseguenze fino alla banchina di Lampedusa con la fila dei fagotti da monnezza.
Resta da lodare ancora Lampedusa: perché quegli annegati non sono di nessuno, né del paese da cui fuggono, né di quello in cui sognavano di arrivare. Sono del mare, e di Lampedusa.

La Repubblica 04.10.13