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“Al Capone è all’angolo ma ancora può colpire”, di Eugenio Scalfari

Il caimano del regista Nanni Moretti aveva già previsto tutto con qualche anno d’anticipo sui politici e così pure la “ballata” di Roberto Benigni; l’ho ricordati nel mio articolo di domenica scorsa e li ricordo qui ancora una volta.
Ma l’attore Moretti che nell’ultima parte del film impersona il Caimano ha poco a che fare con Silvio Berlusconi: è un uomo lucido, severo, terribile e soprattutto coerente. Afferma davanti al Tribunale che lo condannerà, che l’uomo (lui) eletto dal popolo a grande maggioranza non può esser giudicato dalla magistratura e rafforza questa sua posizione anche dopo la condanna esortando il popolo alla rivolta senza mai costruire una qualsiasi alternativa e senza affidarsi al consiglio d’un amico o d’un consulente o d’un esperto.
Non ha dubbi, non ha incertezze, non ha ripensamenti, non ragiona con le viscere ma col cervello.
Il Berlusconi vero non è affatto così, anzi è l’opposto di così e lo si vede chiaramente con quella sorta di film dal vero che si è svolto mercoledì scorso sotto i nostri occhi.
Alle dieci del mattino esce da Palazzo Grazioli di fronte al compatto muro di telecamere e fotografi che lo aspettano al varco e va a Montecitorio dove è riunito il grosso dei dirigenti del partito e dei gruppi parlamentari. Li arringa, ribadisce la necessità di votare contro il governo Letta, non apre contraddittori e se ne va.
Palazzo Grazioli però è una porta aperta e i suoi consiglieri lo seguono e salgono fino al suo appartamento. Falchi e colombe fanno ressa, litigano tra loro, alcuni vengono chiamati nello studio dove sta il Capo, con l’ansia e l’angoscia che gli rodono il fegato e gli pesano sulle palpebre. Alfano, Lorenzin, Gelmini, Cicchitto, Sacconi, sostengono la fiducia al governo; Bondi, Santanchè, Verdini, Brunetta, Carfagna, il contrario. Lui ascolta, si tormenta le dita, si passa le mani sul volto, si dimena sulla poltrona. Poi quasi li caccia coadiuvato dalla fidanzata. Soffre ed è evidente a tutti. Fa pena o almeno questo è il racconto che alcuni di loro fanno a chi li attende fuori. Un nuovo confronto è indetto a Montecitorio per il primo pomeriggio.
Intorno alle ore 14 la votazione sulla fiducia sta per cominciare. Letta ha già parlato ed è stato chiaro e deciso, ha esposto le linee del programma economico e di riforma della Costituzione, ha manifestato l’intenzione che il governo duri fino alla fine del 2014, appena terminata la presidenza semestrale del Consiglio europeo. Ma ha anche aggiunto che non vi saranno mai più leggi «ad personam» o «contra personam» riaffermando che le azioni di giustizia, quali che siano, riguardano fatti privati e non debbono avere alcuna conseguenza sul governo che deve soltanto occuparsi degli interessi generali del paese.
Intanto la discussione ferve sempre più accesa nella sala dove il gruppo dirigente del Pdl è riunito attorno al suo «boss». Ma il boss sempre più aggrondato, cupo, tormentato, sudato, che ha perso il piglio dell’Al Capone dei tempi d’oro che gli è stato abituale per trent’anni, ed ora sembra un Re Travicello, sbattuto tra le onde e gli alterchi che s’incrociano intorno a lui. E loro, quelli che disputano sul da fare, sul voto che tra poco ci sarà, sulle conseguenze che ne deriveranno, non si curano più di lui.
Gridano, qualcuno prende a spintoni qualcun altro, alcuni sospirano, altri addirittura piangono. Lui spesso chiude gli occhi che ormai sono diventati due fessure a causa dell’ennesimo lifting mal riuscito e della rabbiosa emozione che lo tormenta.
Ogni tanto un commesso bussa alla porta e avvisa che la «chiama» sta per cominciare. A quel punto lui si scuote, si alza e con voce decisa annuncia che si voterà la sfiducia.
Chi non se la sente resti fuori dall’aula o non voti, che al Senato equivale al voto contrario.
Quasi tutti sciamano, escono nella galleria dei «passi perduti», gremita di giornalisti, infine entrano in aula.
Bondi annuncia pubblicamente con piglio tracotante che il Pdl voterà «no» e così, nell’aula della Camera, fa Brunetta. Non ci sono sorprese in nessun settore delle due assemblee e sui banchi del governo.
Ma Alfano e Lupi sono rimasti dentro e Gasparri con loro.
Per l’ennesima volta gli espongono le ragioni che militano a favore del voto di fiducia. Lui continua a negarle e rifiutarle anche se il sudore riappare sulla sua fronte e le mani sono strette e quasi aggrovigliate l’una nell’altra. A un certo punto – la «chiama» è già cominciata – arriva affannato il vice di Schifani, presidente del gruppo parlamentare in Senato, e gli consegna un foglio di carta dove sono incollate le foto scattate da un fotografo in aula alle spalle di Quagliariello con sopra scritti i nomi dei senatori pidiellini pronti a varcare il Rubicone e a schierarsi a favore del governo Letta. Sono 23 ma si sa già che stanno per arrivare altre due adesioni ed altre ancora arriveranno. In quelle condizioni, scrive Schifani nel suo biglietto, lui non si sente di fare una dichiarazione di voto a nome di un gruppo ormai spaccato e chiede a Berlusconi di farla lui.
Risultato: il boss si avvia con passo alquanto incerto verso l’aula, va al suo seggio, gli viene data la parola e dice a bassa voce quello che abbiamo sentito in tivù e che tutti i giornali di giovedì hanno pubblicato: il Pdl voterà la fiducia ma insulta per l’ennesima volta la magistratura e il Pd. Luigi Zanda, immediatamente dopo di lui, rinvia all’ancora Cavaliere gli insulti ricevuti con parole dure e annuncia la fiducia a nome del partito da lui rappresentato.
Lo spettacolo, perché di questo si tratta, continua con le telecamere che dal loggione riservato alla stampa inquadrano ininterrottamente Berlusconi che si copre gli occhi con le mani e Letta che dopo quella dichiarazione rivolgendosi ad Alfano seduto accanto a lui gli dice «grande» alludendo ironicamente all’ex boss del centrodestra che ormai ha sancito la propria irrilevanza tentando però di coprire la spaccatura del suo partito.
* * *
Così più o meno sono andate le cose nella giornata- culmine della storia degli ultimi vent’anni. La fine di Berlusconi è anche quella del berlusconismo? Il rafforzamento del governo e la sua stabilità? La crescente forza attrattiva del Pd che sembrava perduta da un pezzo? Così sembrerebbe e così è sembrato quel pomeriggio di venerdì. Ma poi sono sorti alcuni dubbi non infondati che Letta e i suoi più stretti collaboratori stanno valutando e che in questi due giorni drammatici seguiti alla strage degli immigrati a Lampedusa, sono avvenuti sotto traccia anche se qualche indicazione è stata cautamente manifestata.
Se Berlusconi avesse la natura del Caimano recitato da Nanni Moretti, a questo punto non avrebbe avuto dubbi: avrebbe dato ad Alfano la guida del Pdl, si sarebbe dimesso da senatore e si occuperebbe soltanto delle questioni proprie e delle sue aziende. Il Caimano di Moretti fece l’opposto: chiamò il popolo alla rivolta, ma con coerenza, senza mai aver oscillato come il pendolo d’un orologio. Se avesse indicato la strada della conciliazione, l’avrebbe seguita con altrettanta coerenza.
Ma qui, nel Berlusconi vero, sono le viscere a parlare. E’ bugiardo, segue gli umori, non ha alcuna visione del bene comune, odia lo Stato e le istituzioni, è un fantastico venditore di frottole, posseduto da un narcisismo finto spinto all’egolatria.
Perciò farà di tutto per vendere ad Alfano e ai suoi moderati un moderatismo di carta d’argento con dentro cioccolatini avvelenati. Tenterà di logorare il governo facendo leva sui ministri che
l’hanno ancora nel cuore (Beatrice Lorenzin l’ha detto e ripetuto a “Porta a Porta” di Vespa). Non sarà più senatore ma sarà ancora e sempre presidente della coalizione, perfino se dovesse andare in galera. Impedirà — fingendosi definitivamente persuaso ad appoggiare il governo — che si formi un gruppo parlamentare fuori dal Pdl.
Metterà in disparte pitoni e pitonesse.
Accetterà che i giornali di famiglia siano diretti da persone gradite ad Alfano. Ma coverà la rabbia e la vendetta aspettando che possano manifestarsi con effetti efficaci. E fidando sulla sopravvivenza del berlusconismo in una parte comunque ragguardevole del corpo elettorale.
A queste evenienze occorre che tutti quelli che hanno una visione del bene comune, moderata o progressista che sia, guardino con la massima attenzione.
Il modo migliore sarebbe di far nascere nuovi gruppi parlamentari e un nuovo partito di centrodestra o di centro. E che insieme al Pd governi questa fase di necessità e approvi la legge elettorale proposta da Violante, fondata su criteri proporzionali con ballottaggio tra i primi due partiti o coalizioni che abbiano riscosso più voti.
Quest’ultimo risultato è essenziale, anche in assenza di gruppi elettorali che dividano in due il Pdl.
Il primo appuntamento sarà tra una ventina di giorni: il voto al Senato sulla decadenza di Berlusconi da senatore.
È un voto pieno di insidie. I pidielle voteranno in massa per Berlusconi, forse con qualche defezione ma poche. Il Pd in massa per la proposta approvata dalla Giunta. I grillini altrettanto. Quindi una maggioranza schiacciante sulla decadenza. Ma andrà veramente così? Pesa ancora il ricordo dei 101 voti contro Prodi di cui ancora si ignora la provenienza; in questo caso possono venire da grillini che li attribuiscano a dissidenti del Pd o da dissidenti del Pd che li attribuiscano ai grillini; o da tutti e due che fanno lo stesso gioco. Dunque molta attenzione.

La repubblica 06.10.13