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“L’assurdo destino dei migranti: o muoiono o vengono indagati”, di Manuela Modica

Se non arrivi sul fondo sabbioso delle acque italiane, se sopravvivi alla morte, hai commesso un reato: sei un criminale. E il nome che non entra nella lista dei cadaveri da inviare nei cimiteri disponibili, verrà impresso nei fascicoli delle procure. Quella di Agrigento li ha incriminati per reato di immigrazione clandestina tutti e 155 ma non c’era altro da fare secondo la legge Bossi – Fini. Dopo la tragedia, dopo il dolore, questa assurda beffa. «Dovuta», come dicono i giudici, che hanno solo quella legge a cui fare riferimento. Le braccia che li hanno afferrati dal mare e la lunga mano della giurisprudenza italiana: il paradosso di Lampedusa è questo. E non lascia margini: «È un fatto obbligato, per cui questi naufraghi, come tutti i migranti che entrano con queste modalità nel territorio italiano, sono denunciati per immigrazione clandestina», il procuratore aggiunto di Agrigento Ignazio Fonzo ha solo esercitato l’obbligo dell’azione penale. Una beffa per i superstiti ma anche per i soccorritori: «Ora vogliono denunciarmi? Sequestrarmi la barca perche abbiamo salvato delle persone? Vengano pure, non vedo l’ora», commenta fuori di sé Vito Fiorino, uno dei primi soccorritori. E sul paradosso della tragedia è lapidaria la presidente della Camera Laura Boldrini, tornata sull’isola dove già era stata più volte come commissario dell’Onu per i rifugiati: «Soccorrere è un dovere non soccorre è un reato». Così l’ex commissario oggi terza carica dello Stato perlustra l’isola: ha visitato il centro di accoglienza, ha incontrato i rappresentanti del progetto Praesidium e il gruppo interforze. Incontri scanditi dalle dichiarazioni: «C’è bisogno di fare chiarezza sulla legislazione. Con l’introduzione del reato di clandestinità in qualche modo è passata l’idea che soccorrere in mare è un problema, può esporre a problemi giudiziari. La legge del mare dice tutt’altro e se c’è un reato, questo si chiama omissione di soccorso. Con le uniche misure repressive non risolveremo mai questo problema. Chi fugge da guerre e dittature, non sarà fermato da leggi più dure. È un’illusione». Ma sui soccorsi interviene anche Giorgio Bisagna, avvocato del foro di Palermo, espserto di diritto dell’immigrazione: «I pescatori che aiutano i migranti in mare in difficoltà non compiono reato e quindi non sono perseguibili penalmente. E lo prevede sia il codice della navigazione che la tanto criticata legge Bossi-Fini che all’articolo 12 comma due prevede che fermo restando quanto previsto dall’articolo 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato». Il paradosso è nel cavillo: «Tutto ruota intorno al concetto di stato di pericolo o di bisogno in cui si trova il migrante. Le indagini in passato sono scattate nei confronti di marinai che hanno soccorso extracomunitari che solcavano il mare in situazioni non di immediato pericolo, secondo i magistrati. Insomma se il migrante non sta per affogare chi lo aiuta corre il rischio di finire sotto processo». Mentre: «Nel caso del naufragio di Lampedusa – osserva ancora Bisagna – il reato potrebbe essere stato commesso da chi non è intervenuto a prestare i soccorsi ai profughi in acqua». Ieri pomeriggio, intanto, è stato il momento della celebrazione religiosa mista musulmana e cristiana nell’hangar dove sono stipate le 11 bare delle vittime. Un rito straziante officiato da don Stefano Nastasi a cui, oltre al presidente della Camera, alla delegazione parlamentare e al sindaco Giusi Nicolini, hanno preso parte alcuni dei sopravvissuti e una decina degli ospiti del centro arrivati nei giorni scorsi. Lacrime e urla, disperazione e odore di morte in quello stanzone dove una decina di altre bare attendono il ritrovamento dei corpi che sono ancora in fondo al mare. «Tutti avrebbero dovuto sentire il loro pianto», ha commentato trattenendo le lacrime la sindaca. Una processione dolente in cui uomini e donne hanno pianto fratelli, amici o semplici compagni di sventura. E sono stati sempre loro a chiedere di poter riconoscere le salme dagli effetti personali trovati addosso.

L’Unità 06.10.13