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Viaggio nel Centro della vergogna: «Ho visto gli orrori nel Cie di Lampedusa», di di Khalid Chaouki*

«Racconteremo e non saremo creduti», così scrisse Primo Levi, testimone e vittima delle atrocità naziste, per significare l’enormità del male che aveva colpito il suo popolo; ebbene noi, davanti alla tragedia che si consuma nel nostro Mediterraneo, diventato il più grande cimitero a cielo aperto, di fronte ai racconti di questo orrore e a quello che ho potuto vedere con i miei occhi a Lampedusa, insieme ai miei colleghi parlamentari e alla Presidente della Camera Laura Boldrini, non posso stare in silenzio. Il Centro di accoglienza di Lampedusa è in condizioni disumane. E tutti oggi devono sapere il livello di degrado e inciviltà a cui siamo arrivati come Italia e come Europa. Tutti.
Appena entrato nel Centro di accoglienza di Lampedusa non credevo ai miei occhi quando Mustafa, signore siriano sulla cinquantina mi ha preso per mano e mi ha trascinato sotto un albero davanti a una brandina: «Vedi, questa è mia figlia ed è incinta al quinto mese. Abbiamo attraversato il mare, siamo scappati da Assad. Non vorrei perdesse suo figlio proprio qui a Lampedusa».
A Lampedusa si dorme per terra, su materassini di gomma sistemati tra cespugli, panchine e immondizia. Mentre cammino tra gruppi di famiglie sistemate per terra, mi fermo da un gruppo di bambini, questa volta palestinesi e anche loro fuggiti dalle bombe del regime siriano. Mi abbasso in ginocchio, mi presento in arabo e chiedo a loro dove dormono. Senza parlare uno di loro mi indica un camioncino scassato, credo una cella frigo per gelati abbandonata dentro il Centro. Non ci credo, non ci voglio credere. La mia guida siriana improvvisata insieme ad altri ragazzi, per lo più ventenni, corrono verso il camioncino, aprono le portiere laterali. Sono pieni di materassini di gomma. «Qui dormono alcune famiglie. Almeno sono al riparo dalla pioggia» aggiunge un altro.
Non faccio in tempo a riprendermi dall’angoscia che una giovane donna, Iman, occhi verdi bellissimi, chiede di parlarmi, solo. Con pudore e scusandosi per il disturbo, mi confessa a bassa voce le sue paure: «Non voglio che ci portino in Sicilia. I nostri amici che sono già lì nel centro ci hanno al telefono che li hanno picchiati. Ho tanta paura e da qui non mi sposto finché non mi assicuri che non ci picchieranno». Mi cade il mondo addosso. Sono scappati dalla violenza, hanno viaggiato per giorni e settimane sognando un rifugio sicuro. E qui da noi questa signora teme la violenza nei nostri centri. Rimango interdetto, cerco di tranquillizzarla con la promessa di indagare sulle condizioni dei centri siciliani. Lei non molla e con gli occhi lucidi mi chiede il numero di cellulare: «Almeno se mi succede qualcosa so con chi posso parlare». È terrorizzata.
TRA PUDORE E STUPORE
Siamo in un Centro che può ospitare 250 persone, ce ne sono oltre mille. Sono eritrei, somali, sudanesi. Persone fuggite alla guerra non turisti in cerca di fortuna. Ora la stragrande maggioranza è siriana. I minori sono 161 accompagnati dalla famiglia, mentre 67 sono non accompagnati. Tra di loro vi sono anche i 41 minori superstiti del naufragio di venerdì mattina, senza più la famiglia. Questo il resoconto dettagliato degli instancabili operatori di Save the Children. «Ci sono solo due medici e ci danno solo dei calmanti. Io ho problemi di cuore, lui ha fortissimi dolori alla schiena. Per mangiare facciamo una fila e aspettiamo almeno due ore», questa volta a parlare è Ahmad, un giovane che mi confida sconsolato che non avrebbe mai immaginato di trovare questa situazione in Italia, in Europa. Annuisco con la testa, lo so.
Il campo profughi Zaatari in Giordania è mille volte meglio di questa schifezza. Ci sono stato recentemente per conto dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea. Non glielo dico per pudore. Ahmad purtroppo ha ragione e si vergogna lui per me, come se comprendesse il mio imbarazzo e la mia rabbia, cambia argomento e mi accompagna in quello che chiama l’hotel cinque stelle. I padiglioni coperti, prefabbricati su due piani. Vedo subito qualche giovane eritreo, dormono sui materassini ma almeno sono al coperto. I famosi 250 posti. Le condizioni igieniche non sono il massimo, puzza dappertutto perché le finestre non si aprono, sono rotte. Ma almeno non si beccano la pioggia e il freddo durante la notte.
Scendo e riprendo il mio viaggio nella vergogna italiana tra bambini, donne e giovani sotto i cespugli e sulle panchine. Vorrei che tutti gli italiani vedessero quello che ho visto. Parlassero con queste donne annunciando loro in faccia che ora rischiano l’incriminazione per immigrazione clandestina. Noi piangiamo i morti, mentre chi si salva lo iscriviamo nel registro degli indagati. Criminale perché colpevole di non essere morto anche lui insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Come è successo per i sopravvissuti all’ultima tragedia di giovedì. Questa è la vergogna in cui siamo precipitati, dopo anni di indifferenza davanti ai proclami razzisti del cattivismo leghista. Ma ora basta. Voglio guardare a testa alta Iman e poterle dire con orgoglio «Benvenuta in Italia. Da oggi questo è per te un rifugio di pace e sicurezza».
È la sera di sabato 5 ottobre. Vengo risvegliato da un tuono fortissimo, a Lampedusa sta diluviando. Non riesco, nessuno di noi della delegazione riesce a prendere sonno. Il nostro pensiero è con i profughi al centro di accoglienza. Bambini, donne e uomini di corsa, nel cuore della notte, alla ricerca di un riparo di fortuna. Questa vergogna deve finire.

*Parlamentare Pd

L’Unità 07.10.13