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“Quella terza età ultimo baluardo del welfare”, Chiara Saraceno

Gli attivissimi giovani-vecchi di Voghera, gli ultrasessantacinquenni che stanno bene in salute e si dividono tra attività ludico-formative e attività di sostegno sia ai famigliari che ad altri membri della comunità, sono forse gli ultimi beneficiari di un’economia in crescita e di un welfare relativamente generoso con i pensionati — almeno quelli che potevano vantare una storia lavorativa e contributiva regolare.
Sono gli ultimi ad aver potuto andare in pensione con il sistema retributivo, che garantiva il mantenimento del tenore di vita. Allo stesso tempo, sono i primi a dover fronteggiare come fenomeno diffuso e non occasionale, o eccezionale, i bisogni dei grandi anziani ed insieme le domande di aiuto — economico, di cura dei più piccoli, che provengono dalla generazione più giovane: dove più mamme sono occupate, ma il lavoro e i redditi di uomini e donne sono diventati più insicuri. Sono protagonisti esemplari di che cosa possa voler dire un “invecchiamento attivo” che non sia ristretto solo ad un prolungamento della vita lavorativa, ma anche che non si realizzi solo in attività di tempo libero, ma comprenda dimensioni diverse, inclusa quella di un civismo solidale, bene rappresentano quella che è stata definita la terza età: un’età libera dall’obbligo della prestazione, ma in cui si può ancor voler essere utili, si ha più tempo per sé e per coltivare i propri interessi (che tuttavia devono essere stati alimentati nelle età più giovani), anche perché normalmente si è ancora in buona salute.
Il grande demografo inglese Peter Laslett, nell’analizzare l’emergere della terza età come fase della vita specifica a seguito del miglioramento delle speranze di vita in buona salute, la aveva indicata come età della libertà. Una visione forse troppo ottimistica, nella misura in cui sottovalutava le conseguenze delle disuguaglianze sociali sul modo e le condizioni in cui ci si arrivava. Soprattutto, Laslett non avrebbe immaginato che, nell’arco di due generazioni circa gli anziani sarebbero passati dal ruolo di chi aveva bisogno di sostegno da parte delle generazioni più giovani a quello di chi ha la responsabilità di sostenere sia i più vecchi che i più giovani. Sono questi “giovani anziani” la vera generazione “sandwich”, quella che provvede al welfare famigliare, ma anche, nel caso di chi fa volontariato, a una parte rilevante del welfare informale di comunità, soprattutto nei confronti dei grandi anziani fragili. È un fenomeno altamente positivo, senza dubbio, che esemplifica come può realizzarsi, appunto, un welfare di comunità, animato da cittadini solidali. Esso tuttavia rimane affidato, appunto, alla disponibilità (di tempo e di voglia) di volontari. Un tempo, se non una voglia, che per altro rischia di essere fortemente ridotto dall’innalzamento dell’età alla pensione. I giovani anziani (specie anziane) che oggi si fanno carico dei bisogni dei loro genitori grandi anziani, oltre che di quelli di figli e nipoti, e che fanno volontariato, rischiano di non poter contare su una risorsa analoga quando a loro volta entreranno nella quarta età. Non perché i loro figli sono più egoisti. Piuttosto perché si sarà accentuato — a livello non solo sociale, ma delle reti parentali — lo squilibrio tra (grandi) anziani e persone più giovani. Ci saranno meno sessanta-settantenni. E questi, stante l’aumento della occupazione femminile e l’innalzamento dell’età pensionistica, saranno più spesso ancora al lavoro.
Ci avviamo verso una società sempre più anziana con strumenti che si rifanno ancora ad un’epoca caratterizzata da equilibri demografici e famigliari molto diversi. L’unica innovazione, sviluppatasi in modo del tutto informale e un po’ anarchico, è stato il ricorso alle badanti, favorito dai processi migratori. Non è tuttavia uno strumento sufficiente, alla portata di tutti, oltre che aperto a rischi di sfruttamento in entrambe le direzioni. Una società amichevole nei confronti degli anziani — soprattutto dei grandi anziani fragili — è una società che non li abbandona solo alla solidarietà privata o al mercato. Non è neppure una società fatta solo, o prevalentemente, di anziani che si trovano, e accudiscono, tra di loro. Le tante Voghere d’Italia dovrebbero, forse, fare qualche sforzo di ringiovanimento: non eliminando i vecchi, naturalmente, ma attraendo giovani e famiglie giovani. Una società multigenerazionale è più interessante per ciascuna generazione. Certo, se i giovani devono dipendere dai vecchi perché il lavoro non c’è o è precario, è molto difficile che questo ringiovanimento avvenga.

La Repubblica 08.10.13