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“Se l’Europa si chiude”, di Paolo Soldini

Sono ingenerosi i fischi che hanno accolto Barroso (e non solo lui, ma anche il premier Letta) a Lampedusa? Forse sì. Dal presidente della Commissione e ancor più dalla commissaria agli Affari interni Cecilia Malström sono venuti nei giorni scorsi segnali nuovi. Non soltanto la sincera commozione, ma anche una qualche presa di coscienza della necessità di cambiare, d’ora in poi, l’approccio delle istituzioni europee alla tragedia dell’immigrazione. Questa nuova consapevolezza ha, per così dire, un risvolto italiano, che il presidente del Consiglio ha espresso ponendo sul tappeto la necessità di rivedere la legge Bossi-Fini. Quelle parole si possono considerare una sorta di riscontro, politico e morale, al dolore di cui ha dato manifestazione inginocchiandosi davanti alle bare dei morti. E però Barroso e la commissaria Malström, co- me il nostro ministro dell’Interno, doveva- no essere ben consapevoli di quel che po- che ore prima era accaduto ben lontano da Lampedusa, a Lussemburgo, nella riunione dei 28 ministri dell’Interno che s’era trovata sul tavolo la crudelissima necessità di parlare di quei trecento morti. Il modo in cui lo hanno fatto non ci piace e non fa onore all’Europa e alle sue istituzioni. Misura, in qualche modo, la debolezza colpevole che le politiche di Bruxelles e dei governi dell’Unione hanno mostrato e continuano a mostrare nei confronti di un fenomeno che, come pochi altri, caratterizza l’epoca che viviamo. Come in molti altri aspetti che non riguardano l’economia, l’Europa nei confronti di questo fenomeno epocale è come se non ci fosse. Ma qui la sua assenza ha conseguenze più gravi e dolorose che altrove. Lo ha riconosciuto Hollande, annunciando che la «lezione di Lampedusa» gli ha ispirato un piano fondato su «prevenzione, solidarietà e protezione dei rifugiati» che renderà pubblico nei prossimi giorni. In Italia molti si sono indignati, a ragione, contro il ministro dell’Interno tedesco Hans-Peter Friedrich che, a nome di un fronte dei paesi del nord e del centro Europa, ha respinto con perdite le richieste dei Paesi più esposti all’arrivo di profughi e immigrati, i quali proponevano la revisione del regolamento europeo «Dublino II» in base al quale l’asilo deve essere chiesto nel Paese d’ingresso nell’Unione. È una materia che deve essere discussa, perché è vero che uno squilibrio c’è: la Germania, la Svezia e altri Paesi ospitano in proporzione alla popolazione molti più rifugiati di quanti ne restino in Italia o in Spagna (ma non in Grecia e soprattutto a Malta). E però ciò avviene proprio per la mancanza di una regola comune, di un «asilo europeo», che sono proprio i governi dei Paesi a non volere, nella convinzione che regole nazionali proteggano meglio dalla «invasione» e che chi più è severo abbia più chance di scaricare il problema sui vicini. Pure l’Italia ha ragionato in questo modo e l’esistenza della Bossi-Fini ne è la testimonianza. Per questo l’annuncio di Letta sulla sua possibile revisione è un buon segnale anche per gli altri Paesi. Ma a Lussemburgo è venuta alla luce un’altra gran- de debolezza politica dell’Europa, ovvero l’incapacità di gestire quella che è una qualità fondativa dell’Unione: la libera circolazione delle persone sancita dal trattato di Schengen. Berlino chiede che venga bloccata la procedura che dall’inizio dell’anno prossimo dovrebbe far entrare pienamente Romania e Bulgaria nell’area di libera circolazione e Parigi la segue perché non è capace di gestire i campi nomadi dei rom provenienti da quei due paesi. Non è il primo attacco al trattato di Schengen. Sarkozy fece di peg- gio al tempo dell’emergenza dei profughi tunisini, l’Austria ha già imposto restrizioni e recentemente la Danimarca ha ristabilito controlli alle frontiere. Friedrich sostiene che i limiti alla libera circolazione sono necessari per evitare che i sistemi sociali dei Paesi ricchi siano «assaliti» da masse di bisognosi solo per approfittarne. A guardar bene tra il rifiuto, o l’incapacità, di gestire in modo comunitario i rifu- giati e l’attacco a Schengen ci sono rispondenze profonde. Dietro ci sono gli stessi egoismi, le stesse paure, le stesse miopìe di fronte alla complessità del mondo. È la logica per cui il regno del benessere, insidiato, ha il diritto di difendersi. Il problema dei profughi è che arrivano, non perché arrivano e come arrivano. Negli anni scorsi i democratici hanno criticato giustamente la politica dei respingimenti praticata contro buon senso e diritto dai governi italiani di allora. Ma a ben vedere la logica che sta dietro a quel pochissimo di linea comune europea che oggi si incarna in Frontex, e prossimamente nel sistema Eurosur, è praticamente la stessa. Che cosa dobbiamo pensare? C’è chi dice che la questione è troppo complicata e gli interessi in campo troppo divergenti per proporre soluzioni. A noi pare, invece, che il problema, come si diceva una volta, sia politico. Trovare un accordo su una politica comune dell’asilo, magari dotate di strutture comunitarie, non parrebbe impossibile se la volontà ci fosse davvero. Non sarebbe neppure costoso. Perché non ci potrebbe essere un ufficio europeo che già a Lampedusa, e negli altri approdi simili, decida se accettare le richieste di asilo e distribuisca i richiedenti tra i vari Paesi? Perché l’Unione non approva subito i piani di reinsediamento dei profughi di guerra che l’Onu ha già pronti? Perché non si organizzano convogli scortati che prelevino le persone minacciate da guerre e repressioni sanguinose? Se l’Unione lo facesse, Barroso (o il suo successore) qualche applauso se lo prenderebbe.

L’Unità 10.10.13