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“Chi insegna agli insegnanti”, di Massimo Razzi

Solo uno studente italiano su tre (32%) sa che esistono dei programmi di studio all’estero ai quali si può partecipare individualmente e solo il 53% delle scuole italiane aderisce a un progetto internazionale. La percentuale di scuole coinvolte è decisamente più alta negli altri Paesi europei: 97% Germania, 89% Spagna, 88% Polonia, 81% Francia, 79% Svezia. E la conoscenza dei programmi da parte degli studenti è più radicata in Germania (59%), Svezia (57%), Spagna (54%) e Francia (42%).
È il quadro (piuttosto preoccupante) che emerge dal rapporto elaborato dall’Osservatorio nazionale dell’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca della Fondazione Intercultura e promosso dalla Fondazione Telecom. In sintesi, per il quinto anno consecutivo, le due fondazioni hanno tastato il polso al mondo della scuola per verificare se e come, nell’istituzione scolastica italiana, il concetto di internazionalizzazione prende piede. Se, cioè, insegnanti, studenti e scuole dedicano sufficiente tempo e interesse alla promozione e realizzazione di programmi di mobilità individuale.
Per avere un metro di paragone, Intercultura e Telecom hanno affidato a Ipsos il compito di analizzare la situazione in altri cinque Paesi europei diversi tra loro per dimensioni, popolazione, livelli economici e culturali. Ipsos ha lavorato su un campione di 2.275 studenti dei cinque Paesi di cui sopra e il risultato è stato messo a confronto
con quanto è stato raccolto nel 2012 intervistando, sullo stesso tema, circa ottocento studenti italiani. Il rapporto è stato presentato la settimana scorsa a Torino.
Il quadro abbastanza negativo, va detto, è mitigato da un dato positivo a favore dell’Italia: quel 53% di scuole italiane che aderiscono ai progetti riesce, di norma, a coinvolgere una percentuale più elevata di studenti: il 72% (come la Francia), un po’ meno della Germania (84%), ma meglio di Spagna (66%) e Polonia e Svezia (56%). Complessivamente, si ha la sensazione che, come spesso accade, un fenomeno lasciato all’iniziativa individuale di insegnanti e presidi “illuminati” può raggiungere punte d’eccellenza. Ad esempio, mentre l’Italia è piuttosto indietro per quanto riguarda gli scambi e la mobilità di classe, i partenariati e gli stage di lavoro all’estero, le cose vanno molto meglio per quanto riguarda l’attivazione dei Clil (Content and Language Integrated Learning, cioè lo studio di una materia scolastica in una lingua straniera), gli stage di studio all’estero e, soprattutto, per il numero di progetti attivati in ciascuna scuola. Insomma, se le scuole italiane che si muovono nel campo dell’internazionalizzazione sono relativamente poche (solo il 53%, si diceva), quelle che lo fanno ottengono risultati più brillanti, avanzati e diffusi. C’è da chiedersi, in un quadro in cui si finisce spesso per “fuggire” all’estero alla ricerca del lavoro, come mai, nella scuola italiana si registrano ancora questi ritardi in materia di internazionalizzazione. Un punto di vista interessante è quello di Roberto Ruffino, segretario generale della Fondazione Intercultura che quest’anno ha ricevuto circa 6.400 domande di studenti italiani che vogliono fare un’esperienza all’estero (crescita del 50%) e ne manderà in giro per il mondo 1.780 (solo 28% negli Usa e un’ottantina in Cina): «A poco a poco, le cose migliorano. Ma il problema è a monte, nella formazione stessa degli insegnanti. Per insegnare nelle scuole italiane non viene richiesta un’esperienza internazionale, non si dice al futuro formatore che dovrà avere un punto di vista non limitato all’esperienza italiana».
Ruffino, in mezzo secolo di battaglie per il superamento dei “confini mentali” di intere generazioni,
ha visto passare, nei programmi di Intercultura, migliaia e migliaia di giovani che hanno trascorso un anno della loro formazione studentesca all’estero. Sa bene che quell’esperienza (nel passato, quando poteva essere dura e difficile, ma anche oggi, ai tempi di internet) può essere determinante nella struttura di una personalità, nell’apertura di una mente, nella formazione di una coscienza aperta: «Per questo insisto. Se un formatore non è mai stato all’estero a formare se stesso, difficilmente sarà capace di comunicare ai suoi studenti l’importanza, la difficoltà, il valore di quella esperienza. Poi, è ovvio, ci sono magnifici presidi e docenti pieni di buona volontà che sanno promuovere l’internazionalizzazione, ma l’esperienza all’estero dovrebbe essere parte integrante e normale della formazione di un insegnante. E non solo di quelli di lingue… E tutti gli insegnanti dovrebbero conoscere bene almeno un’altra lingua…». Insomma, il ritardo italiano, secondo Ruffino è principalmente in una formazione “non internazionale” degli insegnanti: «Perché trascorrere un periodo di tirocinio in una scuola straniera, non solo a vedere come s’insegna all’estero, ma anche a provare sulla propria pelle le difficoltà e lo smarrimento determinate dalla scarsa conoscenza di una lingua e di un ambiente, è di certo qualcosa che va ben al di là del corso universitario. È qualcosa che ci tocca all’interno, che fa crescere anche il migliore degli insegnanti e lo colloca in una posizione del tutto nuova anche rispetto agli “smarrimenti” che incontrerà nei suoi alunni».
Va detto, comunque, tornando alla ricerca, che gli insegnanti italiani, soprattutto quelli di lingue, sono tendenzialmente aperti e impegnati nel promuovere e informare sulle possibilità per gli studenti di fare esperienze all’estero. Ma è anche chiaro che nei Paesi dove l’internazionalizzazione ha superato la fase sperimentale e volontaria per diventare normalità, sono anche gli insegnanti delle altre materie a darsi da fare per far capire ai giovani l’importanza di quel tipo di esperienza. C’è da augurarsi, dunque, un prossimo futuro in cui siano anche i docenti di italiano e di greco, di matematica e di scienze a spingere i nostri ragazzi oltre i confini fisici e mentali della nostra scuola e del nostro Paese.

La Repubblica 16.10.13