attualità, politica italiana

“Stabilità, troppe aspettative”, di Massimo D’Antoni

La legge di stabilità varata dal Governo scontenta un po’ tutti e, si dice, manca di coraggio. Certo, gli scontenti dovrebbero mettersi d’accordo. Si riduce troppo poco la spesa? Ma quando si è ipotizzato un taglio alla sanità c’è stata giustamente una levata di scudi di fronte al rischio di un taglio delle prestazioni. Si doveva ridurre in modo più deciso il cuneo fiscale? Ma i sindacati annunciano barricate rispetto al blocco dei contratti dei dipendenti pubblici, nei fatti una tassazione selettiva dei redditi dei lavoratori del settore pubblico. Ed è vero, la riduzione dell’imposta sul reddito ammonta a pochi spiccioli, qualcosa come mezzo euro al giorno per i più fortunati. Ma non è che l’Imu sulla prima casa abbia poi un peso tanto maggiore, eppure ha monopolizzato il dibattito politico per mesi.

Molte critiche sono corrette. Eppure, la sensazione è che il dibattito sia viziato da un eccesso di aspettative e una non corretta percezione degli effettivi spazi di manovra del governo.

Chi avrebbe voluto un taglio più deciso del cuneo fiscale dovrebbe spiegare dove intende trovare le risorse per un intervento di quindici o venti miliardi. «Spesa pubblica improduttiva» è espressione tanto diffusa quanto vaga e inafferrabile. Ogni qualvolta ci si avvicina al tema con un minimo di serietà ci si accorge che non esistono soluzioni facili o tesoretti da scoprire.

Qualche esempio? Prendiamo le pensioni cosiddette elevate, su cui qualcuno ipotizza un intervento. Con un po’ di azzardo consideriamo elevata una pensione che supera i 3 mila euro lordi mensili (circa 2.150 euro netti), e ipotizziamo una riduzione del 10% di quanto eccede tale livello. Con qualche semplice conto ci accorgeremo che l’ipotetico
risparmio (al netto delle minori imposte) non supera i 700 milioni di euro, che si dimezzano se fissiamo il limite a 4000 euro lordi; stiamo parlando di entrate pari a una frazione dell’intervento varato sul cuneo fiscale. Facciamo un altro esempio, che riguarda gli investimenti finanziari, ipotizzando un aumento dal 20 al 22% della tassazione su tutti i redditi da capitale (lasciando da parte i titoli di stato, che in questo Paese sono considerati intoccabili anche per il più coraggioso dei governi). Quanto gettito darebbe? Non più di mezzo miliardo di euro.

E i famosi 10 miliardi di aiuti alle imprese che il professor Giavazzi aveva individuato come «eliminabili» nel prossimo biennio? Un rapporto preparato nel marzo scorso per la presidenza del Consiglio chiarisce che la cifra effettivamente aggredibile è in realtà un decimo di quella indicata, e si compone in buona parte di contributi a cinema, teatro, editoria, e anche alle università non statali.

Sono tutti interventi che un governo coraggioso può certamente attuare, ma gli importi in gioco chiariscono che abbiamo ormai raggiunto il cosiddetto fondo del barile. Del resto, molto è stato fatto: negli ultimi tre anni, per la prima volta nella storia della Repubblica, la spesa pubblica al netto degli interessi è scesa in termini nominali. Si può fare di più? Certamente sì, ma ulteriori interventi dovranno passare per una riorganizzazione complessiva della macchina pubblica, che richiede tempi lunghi e non promette risultati miracolosi.

Insomma, un bagno di realtà non farebbe male ai commentatori e a molti dei protagonisti del dibattito politico (e, in alcuni casi, accademico). Aiuterebbe ad abbandonare l’idea che il rilancio dell’economia possa venire da una riduzione shock del carico fiscale.

Se una critica ci sentiamo di muovere alla legge di stabilità, questa va dunque nella direzione opposta rispetto a molti interventi di questi giorni: sarebbe stato meglio lasciar perdere del tutto l’idea di intervenire sul cuneo fiscale, per concentrare le (poche) risorse su interventi più mirati ed efficaci sul piano degli effetti moltiplicativi. Anche in ambito accademico è in corso una riabilitazione della vecchia idea per cui nelle fasi recessive ai fini del rilancio della crescita i tagli alle imposte sono meno efficaci dei programmi di spesa. Quindi: edilizia scolastica, incentivi al risparmio energetico, infrastrutture per il trasporto, investimenti in banda larga. Ma se i soldi mancano per ridurre le imposte, mancano anche per la spesa. Diventa allora necessario esplorare la possibilità di altri strumenti. Lo Stato, benché vincolato nella sua capacità di spesa, ha ancora la capacità di assorbire rischi non assicurabili dai mercati e può per questa via contribuire a riattivare il canale esangue del credito alla produzione (pensiamo al fondo di garanzia o a possibili soluzioni che coinvolgano Cassa depositi e prestiti). Da questo punto di vista, non mancano alcune luci. Anche nella legge di stabilità in discussione.

L’Unità 18.10.13