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“Investire in conoscenza per uscire dalla crisi”, di Valentina Santarpia

L’Italia deve investire in conoscenza per cambiare il futuro: la ricetta è più o meno risaputa, è lo chef che la suggerisce stavolta a stupire: si tratta di Ignazio Visco, il governatore di Bankitalia, che parlando al Forum del libro di Bari ha lanciato un accorato appello per rilanciare la scuola e l’università italiana e contrastare quell’«analfabetismo funzionale» che ci mette agli ultimi posti della classifica per livello d’istruzione rispetto agli altri Paesi avanzati. «Il rendimento dell’investimento in conoscenza- ha ricordato il numero uno di palazzo Koch citando Benjamin Franklin – è pi ù alto di quello di ogni altro investimento. E’ la radice del progresso umano e sociale, la condizione per lo sviluppo economico». Per cui la chiave dell’Italia per ritrovare la forza di crescere e competere sui mercati globali, spiega il governatore, sta tutta nella capacità di investire in «capitale umano».

I DATI – Vanno tutti nella stessa direzione: il livello di istruzione dei giovani italiani è «ancora distante da quello degli altri Paesi» e questo, sottolinea Visco, «è particolarmente grave». Nellaclassifica dell’Ocse, pubblicata la scorsa settimana, l’Italia si posiziona, per ogni categoria di età, nelle ultime file tra i 23 Paesi oggetto dell’indagine. Il 70% degli adulti italiani non è in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e complessi al fine di estrarne ed elaborare le informazioni richieste, contro il 49% della media dei Paesi partecipanti. Sette italiani su dieci allo stesso tempo non sono in grado di completare compiti basati sull’elaborazione di informazioni matematiche estrapolabili da contesti verbali o grafici, contro il 52% della media degli altri Paesi. Non è tutto. Il primo rapporto sulla promozione della lettura in Italia, curato proprio dall’associazione Forum del libro, ricorda come nel 2012 oltre la metà della popolazione italiana non abbia letto neanche un libro: succede solo nel 40% dei casi in Spagna, mentre in Francia solo un terzo della popolazione dichiara di non aver mai sfogliato un testo, e in Germania solo un quinto. Anche le percentuali sull’abbandono scolastico non sono confortanti: l’Eurostat segnala che l’anno scorso la quota dei giovani tra i 18 e i 24 anni che ha interrotto precocemente gli studi era prossima al 18%, rispetto all’11-12% di Francia e Germania e il 13% della media europea. E anche se la quota di laureati nella popolazione tra 25 e 64 anni è salita dal 10 al 16%, non si può non considerare il fatto che nella media dei Paesi europei la stessa quota ha raggiunto il 28%, 8 punti in più rispetto al 2000. Non cambia il quadro se si guarda alla platea dei più giovani: nel 2012 solo il 22% dei giovani tra 25 e 34 anni era laureato, contro il 35% della media Ue. Estudiare in Italia conviene meno che negli altri Paesi: mentre nel resto d’Europa, in media, lavorava l’anno scorso l’86% dei laureati contro il 77% dei diplomati, in Italia per chi aveva raggiunto il massimo titolo di studio tra i 25 e i 39 anni la probabilità di essere occupati era pari a quella di chi aveva finito la scuola superiore (73%), e superiore di soli 13 punti rispetto a quella di chi aveva solo la licenza di scuola media.

LE CAUSE- «Lo sviluppo relativamente recente dell’aumento della scolarità e una popolazione mediamente più anziana spiegano solo in parte questa carenza», sottolinea Visco, dato che «anche per i più giovani i ritardi restano ampi». Ci sono altri fattori che vanno presi in considerazione: «Il ruolo della famiglia, l’organizzazione scolastica, i mezzi di comunicazione». Influisce sicuramente anche la «congiuntura economica molto difficile che stiamo vivendo, e che sta imponendo grandi sacrifici a gran parte delle famiglie italiane». Una congiuntura che non è solo la conseguenza della peggiore crisi dal dopoguerra, innescata dalla crisi finanziaria del 2007-2008 e aggravatasi con le tensioni sui debiti sovrani dal 2011. Ma è anche il risultato – è il cane che si morde la coda- proprio di «un diffuso indebolimento della capacità del nostro Paese di crescere e competere».

COME SE NE ESCE – Serve una risposta di sistema, conclude il governatore della Banca d’Italia: delle famiglie, della scuola, della politica, del settore produttivo che esprime troppo spesso un basso livello di domanda di lavoro qualificato. «Il capitale umano – sottolinea Visco – è il perno del nostro ragionamento. Per il sistema produttivo un capitale umano adeguato facilita l’adozione e lo sviluppo di nuove tecnologie, costituendo un volano per l’innovazione e quindi per la crescita economica e l’occupazione». Quanto investe oggi l’Italia in questo capitale? Troppo poco, sottolinea il governatore: poco sopra al 4% del Pil, contro l’11% degli Stati Uniti. Bisogna invertire la rotta, conclude Visco: «Perché i benefici del capitale umano non si esauriscono con quelli di natura materiale: più istruiti si vive meglio e più a lungo».

Il corriere della Sera 19.10.13

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La mezza modernità dell’Italia a scuola

Possibile (parziale) interpretazione della crisi italiana: il salto nella modernità il Paese l’ha fatto solo per un pezzo. Poi l ’ha abbandonato. Viene da pensarlo se si guardano le statistiche sulla scolarizzazione e le si confrontano con i partner europei. Ne risulta un quadro drammatico. Nella fascia di età tra i 25 e i 54 anni, solo il 16,1% degli italiani ha una laurea o un’educazione di livello definito «alto», cioè comparabile (dati e definizioni di Eurostat). La media dell’Europa dei 27 è il 28,8% . La Francia è al 33,4% , la Germania al 28% , la Gran Bretagna al 39,3% . Peggio di noi, non uno dei Paesi della Ue. Nella stessa fascia di età, il 39,5% degli italiani ha un livello di educazione «basso», cioè non ha ottenuto un diploma di scuola secondaria: la media europea è il 23,5% , quella francese il 23,8 , la tedesca il 13,1 e la britannica il 21,4 . Peggio di noi solo Spagna, 41,4% , Malta, 62,8% , Portogallo, 60,4% .
Naturalmente le cose non vanno meglio tra coloro meno giovani, tra i 55 e i 74 anni, che solo in parte hanno beneficiato della scolarizzazione di massa. La percentuale dei laureati è dell’8,6% , superiore solo a quelle maltese (7,1% ) e rumena (7,1% ). La media dei 27 è il 17,6% . La Francia quasi ci doppia (16,7% ) e la Germania (23,8% ) e la Gran Bretagna (27,3% ) non ci vedono nemmeno. Anche in questa fascia di età, la percentuale di italiani con istruzione «bassa» è elevatissima: il 67,5% . Peggio di noi la Spagna, 72,1% , Malta, 85,7% , Portogallo (85,5% ). La media Ue è 42,7% . Partivamo male, da Paese agricolo e poco avvezzo all’università, riservata fino al dopoguerra alle élite . Ci siamo industrializzati, siamo diventati una delle maggiori economie dell’Occidente, ma non siamo lontanamente riusciti a colmare il gap di istruzione con la stragrande maggioranza dei Paesi europei.
Non si tratta di dati statistici di poco conto. Questi numeri danno il segno della difficoltà strutturale, ormai di lungo periodo, che il Paese ha nel rispondere a un’economia globale che chiede di competere attraverso i saperi, le competenze, la ricerca, l’innovazione. Non è che lo studio universitario garantisca qualcosa in sé, che assicuri il successo a un individuo (anche se chi è laureato ha redditi mediamente piuttosto superiori a chi non lo è).È che l’Italia sta del tutto mancando l’adeguamento al mondo di oggi che pretende si punti sulle classiche tre cose: capitale umano, capitale umano, capitale umano.
Sempre l’Eurostat indica che il numero dei cosiddetti dropout , coloro che abbandonano gli studi prima di avere raggiunto un livello medio-alto, è in Italia tra i più elevati. I ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non hanno preso un diploma e che non sono più a scuola e nemmeno seguono programmi di training sono il 14,5% del totale della fascia di età. La media della Ue a 27 è l’11% e risultati peggiori si registrano solo in Spagna, 20,8% , a Malta, 17,6% , e in Romania, 16,7% . La Germania e la Francia sono al 9,8% , la Gran Bretagna è al 12,4% . Sono confronti imbarazzanti da commentare. Raccontano l’inadeguatezza dell’Italia a stare nel mondo moderno. E dicono che uscire da questo abisso sarà un processo lungo e difficile. Ammesso che cominci.

Il Corriere della Sera 20.10.13