attualità, cultura

“La televisione malata di questo paese”, di Giovanni Valentini

Padrone del divertimento televisivo, rastrella pubblicità, ammassa profitti, opera lobotomie collettive mai viste. (da “Morbo italico” di Franco Cordero – Laterza, 2013 – pag. 90)
È la prima volta, a memoria di “homo videns”, che il direttore generale della Rai sfida apertamente la politica per difendere gli interessi della sua azienda. E già questa novità, anche al di là del merito, è degna di considerazione. Non tanto perché denota un’apprezzabile autonomia personale e manageriale, quanto perché rivendica “coram populo” l’indipendenza della televisione pubblica rispetto alle interferenze del potere.
Quando Luigi Gubitosi dichiara pubblicamente che «Crozza non è in Rai per colpa della politica», attacca il Pdl e in particolare il suo capogruppo alla Camera, Renato Brunetta, che aveva contestato i cospicui compensi del comico e di Fabio Fazio. Ma in realtà la sortita del direttore generale mette sotto accusa il conflitto d’interessi che condiziona da un ventennio tutto il sistema televisivo italiano: cioè quell’anomalia incarnata dalla figura di Silvio Berlusconi proprietario di Mediaset, capo di partito e già uomo di governo. Una distorsione del mercato che altera il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza.
Se in Italia quel conflitto fosse stato effettivamente disciplinato; se non esistesse una concentrazione televisiva privata con tre reti in concessione; se Berlusconi non fosse il padrone del Biscione oltre che il leader del Pdl; e se infine l’onorevole Brunetta non fosse il capogruppo del medesimo partito a Montecitorio, non potremmo dargli poi tutti i torti quando reclama la massima trasparenza sui compensi della Rai. E così bisognerebbe fare luce anche sui contratti di certi produttori esterni per trasmissioni che si potrebbero tranquillamente realizzare “in casa”. O sullo strapotere di certi “agenti” che impongono attori e attrici, conduttori e conduttrici, mogli e fidanzate.
Ma l’offensiva del Pdl contro la Rai si configura oggettivamente come un “favoreggiamento” a beneficio del suo principale concorrente diretto, un aiuto del partito-azienda all’azienda-partito. Se alla fine Crozza è stato costretto a rinunciare al contratto con la Rai per sottrarsi a questo fuoco di sbarramento, la tv di Stato rischia ora di perdere ascolti e pubblicità a vantaggio di Mediaset e ovviamente anche de La 7 che continuerà a ospitare le trasmissioni del comico. È il trionfo del conflitto d’interessi, l’apoteosi dell’anomalia berlusconiana.
Si può disquisire quanto si vuole, allora, sull’astronomico compenso di Fazio e sul gestaccio di Maradona nella trasmissione “Che tempo che fa” da lui condotta. Ovvero, sul ruolo e sulla responsabilità del servizio pubblico radiotelevisivo. Ma tutte le polemiche che hanno investito in questi giorni la Rai hanno un’origine comune che qui denunciamo da tempo: la doppia natura o la doppia anima della tv di Stato, da una parte azienda pubblica che incassa il canone e dall’altra soggetto privato che raccoglie pubblicità sul mercato.
È proprio da qui che scaturiscono molte delle disfunzioni e storture che affliggono il nostro servizio pubblico, a differenza di quanto accade nel resto dei Paesi europei. La Rai, come Arlecchino servo di due padroni, è chiamata a fare contemporaneamente due parti in commedia: assolvere agli obblighi che derivano dal contratto di servizio con lo Stato e inseguire gli ascolti per contenderli alla tv commerciale, con il rischio di omologarsi al suo modello. C’è uno strabismo congenito, dunque, che altera inevitabilmente la tele-visione dei dirigenti, dei funzionari, dei giornalisti, dei conduttori o delle conduttrici di viale Mazzini e Saxa Rubra.
Sull’altare dell’audience, troppo spesso la Rai sacrifica – come davanti a una moderno totem mediatico – la sua missione istituzionale di servizio pubblico, con trasmissioni trash del genere “pacchi”, isoledei- famosi o serial e telefilm americani di cui viene infarcito il palinsesto di alcune reti del digitale terrestre. E mentre noi, cittadini e telespettatori, paghiamo il canone d’abbonamento, l’azienda pubblica continua a drenare risorse sul mercato della pubblicità, a danno di tutti gli altri media, vecchi e nuovi. Questa è la tv malata di un sistema e di un Paese malato.

La Repubblica 26.10.13