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“La leadership e l’evoluzione del Pd”, di Giancarlo Bosetti

La distanza maggiore tra i contendenti alla guida del Pd riguarda, prima e più delle persone e delle politiche, l’idea stessa del partito. Si capisce dai documenti congressuali depositati e ancora meglio dalle battute: «Leadership non è una parolaccia» (Renzi, chiudendo la Leopolda). E dall’altra parte: «Non vogliamo diventare un comitato elettorale». E ancora: «No a un primattore come dirigente», «Aprire le primarie alla destra è come far scegliere l’amministratore di un condominio a quelli di un altro condominio ». Queste ultime tre lamentele indicano la sofferenza e il rigetto di quel che sarebbe invece indispensabile in un sistema bipolare: rispettivamente l’uso del partito come “mezzo” per vincere le elezioni, la centralità personale del leader-premier, la necessità di prender voti fuori dal recinto ereditato e di “rubarli” agli avversari.
Le distanze qui tra il sindaco di Firenze e gli altri sono abissali e descrivono una forma politica che sta attraversando una profonda crisi, che sarà evolutiva nel caso migliore, e autodistruttiva in quello peggiore. Si tratta dell’evoluzione, tardiva per il Pd (doveva cominciare nel 2007, con il discorso di Veltroni al Lingotto, se non prima), che va dal partito organizzativo di massa, nella sua forma classica, europea, novecentesca, al partito elettorale (pure di massa) e pigliatutto; evoluzione complicata e aggravata dal passaggio fallito, tutto italiano, da un quarantennio proporzionalista a un incompiuto e disfunzionante bipolarismo.
Quelle che si fronteggiano in modo più o meno esplicito sono ambizioni di candidati leader che interpretano, tutti, un desiderio di rinnovamento, che non sempre fa però i conti con il tempo e il contesto in cui si svolgerà la battaglia.
Vero che le prossime regole elettorali sono ancora ignote, e ignota è soprattutto la quantità di proporzionalismo che rimarrà in campo, ma quelle ambizioni di rigenerazione (intellettuale, morale e persino “cognitiva”) sono smisurate, a meno che non si ritorni senza riserve alla Prima Repubblica, un’epoca in cui il Pci, cui era comunque preclusa la conquista della maggioranza, poteva coltivare in grande la sua “autonomia” ideologica insieme alla vocazione pedagogica. Parlare oggi, come si fa, di “autonomia” e di “condomini” elettorali è un nonsense, se si vuole, come si dovrebbe, un partito capace di «prender voti in tutte le direzioni» (Renzi), obiettivo che è, ed era, invece un nonsense in un’elezione proporzionale pura.
Altro che disprezzo per i partiti- comitati elettorali, come se questa funzione democratica e costitutiva della loro ragion d’essere fosse un optional. Forse andava detto subito, nel 2007, che decidere di fare un partito a vocazione maggioritaria in un sistema bipolare significava adottare mentalmente l’art. 1, sez 1, della Carta fondamentale dei Dems americani: «Il partito nomina e sostiene i suoi candidati per la elezione di Presidente e Vicepresidente degli Stati Uniti». È l’essenza della cosa, circondata poi, certo, da molti importanti dettagli. Ma nell’attuale battaglia dentro il Pd è tuttora corrente il rifiuto della leadership personale come arma decisiva per la vittoria elettorale. Lo dice bene con il linguaggio affilato delle scienze politiche, Mauro Calise, nel suo (Fuori gioco, La sinistra contro i suoi leader, Laterza, 2013): il Pd si è popolato in questi anni di “microleader”, attraverso le logiche elettorali dei vecchi partiti, attraverso il notabilato delle preferenze e poi le fusioni; e ha sviluppato una straordinaria resistenza contro le “macroleadership”, come se la personalizzazione delle grandi battaglie politiche non fosse altro che un vizio della destra di Berlusconi, dunque da evitare.
Neanche l’“assalto al cielo” della leadership dei “net-citizens” da parte di Beppe Grillo è bastato a suonare l’allarme. Il Pd è rimasto «l’unico partito impersonale » sulla scena (come ha scritto qui Ilvo Diamanti) e continua, in diversi suoi dirigenti, a piacersi così, anche se è ormai prova provata che spalmare la leadership sulla “collegialità” dei microleader, magari nel nome della “ditta”, è una scelta perdente. Gli elettori da conquistare sono tutti evidentemente fuori della ditta. Non lo decide una ragione morale o politica qualsivoglia, ma la natura stessa della competizione bipolare, in cui la leadership non si manifesta nell’influenza interna, ma soprattutto in quella esterna. I voti sono potenzialmente dell’avversario, se il mio leader non ingaggia il duello per la loro conquista in campo aperto, e assumendosi personalmente tutto il rischio della contesa.
Anche nelle visioni più accorte e sofisticate, come in quella di Fabrizio Barca, che rifiutano legittimamente un “partito liquido” in favore di un “partito palestra”, capace di bene organizzare la discussione, di mettere in atto lo sperimentalismo democratico come pratica di confronto e controllo delle politiche, si immagina un partito «interfaccia tra società e governo», capace di agire e integrare la funzione di una pluralità di associazioni: fisionomia intellettuale e omogeneità di intenti molto ambiziose (e quanto realistiche?) nella competizione bipolare. Il partito elettorale di massa, sotto una guida forte e personale, può anche avere un corpo relativamente articolato e con un mosaico di componenti diverse. Correnti e gruppi di pressione ci sono anche nei partiti americani, come in quelli inglesi o tedeschi, di destra e sinistra. Ma funzionano e vincono, come contenitori elettorali (espressione non offensiva, vero?) se riescono anche ad apparire agli elettori da conquistare come una scelta preferibile a quella degli avversari, un dignitoso e concreto “meno peggio”.
Nelle mozioni congressuali del Pd che diffidano di una leadership troppo “macro” c’è molto comprensibile orgoglio e desiderio di recuperare «la nostra autonomia culturale», e c’è anche molta guardinga difesa dai «modelli stranieri». Non è difficile vedere dietro tutto questo il rischio di affrontare un duello elettorale contro la destra con spade di latta (già visto), oppure il non detto di uno sfrenato desiderio di tornare alla scacchiera proporzionale della prima Repubblica.

La Repubblica 28.10.13