attualità, politica italiana

“La politica-Dynasty da Silvio a Marina”, di Francesco Merlo

«Non sono io la fata con la bacchetta magica che riporterà il mondo al 1994» ha detto a un amico. Marina Berlusconi sta davvero resistendo all’amore furioso del padre che vuole accomodarsi su di lei come Anchise sulle spalle di Enea. E le smentite, «non ci penso nemmeno», non sono di maniera, anche se di Marina non c’è più verità. A 47 anni una delle ereditiere più ricche del mondo ha infatti rilasciato una sola libera intervista non pilotata, e risale a 15 anni fa. Dunque Marina è un solo marchio: «Spero che Marina e Barbara non scendano in politica», ha detto Confalonieri con la faccia platealmente preoccupata e dunque volutamente non definitiva. «Noi facciamo il tifo per Barbara» hanno allegramente dichiarato prima Cacciari e poi Freccero. E così la dynasty è diventata un divertimento con lo schema del reality: la nomination al posto delle primarie, Barbara contro Marina, dove Barbara, la biondina laureata da Cacciari e don Verzé, la figlia disinvolta ed euforica che si fidanza con il calciatore del Milan,
sembra inventata da Goldoni o da Molière per stanare l’introversa e disforica Marina. Ecco a voi la sfida delle sorelle, anzi sorellastre, delle femmine sapute: chi sarà nominata, vale a dire eliminata? Brrr, che brivido, la politica.
Proust direbbe che Marina è “la prigioniera”, e non solo del padre che invece di liberarla di sé vuole ingombrarla al punto di riprodursi uguale in lei, di clonarsi. «Rischio di diventare la parodia della discesa in campo, la caricatura di mio papà», ha confidato la vera Marina che mai salirebbe su un palco alla maniera di Frank Sinatra come nel debutto romano di 19 anni fa e mai riuscirebbe a ridicolizzare Travaglio e Santoro con la gag della sedia, né ha il sorriso e la faccia gaglioffa per correre ad abbracciare piangendo i terremotati mentre in segreto la cricca li truffa ridendo.
Prigioniera dei giornalisti-dipendenti che la raccontano “tosta” per compiacere Forbes e Fortune che la classificano più potente di Hillary Clinton, Marina, come ha sempre confermato Confalonieri che è il suo mago Merlino, è timida, musona e persino ingenua, anche se è costretta a fare “la bersagliera” come dicono in Mondadori.
A meno che “tosta” non voglia dire che ringhia nel difendere papà con il codice monumentale e ridicolo delle milizie giudiziarie, della Spectre dei boia che sbranano il frodatore fiscale, corruttore di giudici, consumatore di prostitute minorenni, compratore di parlamentari… Ma qui è il sangue che parla, sono le gigantografie sui muri del suo ufficio che prendono vita come le tele in Harry Potter:
papà col Papa, papà con Bush, papà che ride, papà che vince, mentre marito e figli stanno nell’angolo, comparse in una vita di identificazione e di avvelenamento direbbe Freud citando Saturno, Cromo, Medea, Elettra… E papà ora le si attorciglia nello stomaco e alla gola, papà-mostro che le cresce dentro e al quale non ha ancora avuto la grandezza di ribellarsi per amore, come fanno tutte le figlie del mondo; di liberarlo e liberarsi con la dolcezza e con la forza di una donna adulta che onora il padre ma non contro se stessa: «Il solo uomo che ho veramente amato è stato mio padre » ebbe la lucidità di confessare Edda Ciano dopo che al padre si era opposta.
E infatti qualcuno in azienda mi parla della crescente magrezza, che non è più solo fatica di bellezza, di un viso tirato e provato, di un nervosismo inconsueto soprattutto sul lavoro, del ritorno di un antico desiderio di «andare via dall’Italia e di tornare a vivere in Inghilterra» dove ha avuto la sua bohème scapestrata e romantica, commessa in un negozio di abbigliamento, al tempo in cui la madre, la signora Carla Dall’Oglio, viveva in campagna nei pressi di Bournemouth, nel Dorset.
Marina non guida l’auto, odia i motori e ha una passione per i cani che ama “contro” gli uomini, alla maniera della Bardot, già da quando era single e viveva in corso Venezia, una miniatura di casa, mobili d’antiquariato e tre cani: ”un canile del settecento”. Tre anni fa il quotidiano Nice-Matin scrisse di un «tentato avvelenamento con veleno per topi di due dei sette cani da guardia della villa di Marina Berlusconi». Un Maigret fu mandato nel villaggio provenzale, ma il giallo non è stato mai risolto, e i cani si sono salvati.
Certo, la prigioniera è una Berlusconi sino in fondo e dunque simbolo come la falce e martello o lo scudocrociato. Basta scrivere “Berlusconi” e sovrapporre i profili. Marina è Berlusconi sino a portare sul corpo i segni di una ricostruzione barocca, dal viso al seno modellati più per compiacere il prototipo femminile di papà che per piacere al bel marito, l’ex primo ballerino della Scala che, nato a Leonforte e cresciuto a Calascibetta, è un siciliano arabo, silenzioso e discreto. Sebbene sia bersaglio del gossip, il “signor Marina”, Maurizio Vanadia, non è mai in mostra, «padre esemplare di due bambini che Marina protegge meglio e più di quanto Silvio protegga lei» che, dopo essersi acconciata anche a first lady e madre di suo padre e “balia” della sua giovane “matrigna”, sa bene che tutto potrebbe fare per lui, ma non diventare lui.
«Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi …» è dunque la colonna sonora dell’ultima anomalia, l’estrema risorsa del conflitto di interessi: cercando di fare della disperata Marina l’erede di una leadership politica, che non sarà mai dinastica come la proprietà della Mondadori o della Fininvest, lo scellerato papà rischia di trasformare la sua fata nella strega che seppellirà il berlusconismo.

La Repubblica 31.10.13

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“Quando la politica è un affare di famiglia”, GIANCARLO BOSETTI

C’è da preoccuparsi di un’eventuale incoronazione politica di Marina come erede politica di Silvio Berlusconi? La risposta è affermativa, ma è bene spiegare perché, dal momento che le dinastie famigliari non sono una novità scandalosa negli ordinamenti democratici. I Roosevelt, i Bush e i Kennedy sono parte della moderna storia americana. Non si tratta delle famiglie reali e imperiali, dotate di una vera “dominazione” (di cui al significato della parola greca: dunasteia)
cui appartiene in senso letterale la trasmissione dinastica del potere: gli Achemenidi o i Sassanidi, i Capetingi o gli Asburgo e i Savoia, per secoli lo scettro se lo sono passato per discendenza di sangue, lineare salvo frequenti complicazioni. L’uso del concetto si estende poi ai livelli inferiori, dei casati principeschi, ducali, comitali e baronali, dove a passare di padre in figlio e talora anche di madre in figlia è il titolo e il patrimonio, anche quando non c’è più la “dominazione” su un territorio. Ma si è allargato ancor di più, anche prima della serie televisiva omonima degli anni Ottanta, Dynasty
(quella di Joan Collins e dei “Carringtons”), a indicare, per analogia, le famiglie imprenditoriali, in cui il passaggio in eredità del patrimonio comporta il passaggio del bastone del comando nelle mani del rampollo più dotato.
Non sempre il talento è distribuito nella misura desiderata tra le generazioni, ma i benefici della elevata posizione e della ricchezza possono durare nel tempo e consentire a un nome di mantenersi in alto nella vita sociale anche quando l’ultimo nipote del casato, che sia Ford, Krupp, Opel oppure Visconti, Medici o Sforza non è più in grado di esercitare un potere imprenditoriale o feudale.
Le moderne democrazie, anche quelle europee coniugate con vecchie monarchie, inalberano sulle loro bandiere promesse contrarie al potere dinastico sulla società, perché si basano su un principio di cittadinanza eguale che respinge ogni forma di privilegio davanti alla legge. Ma non è una novità che ne subiscono l’influenza in due modi: la prima è che molte di quelle promesse sono perforate dalla forza del denaro e del prestigio; la seconda è che la democrazia rappresentativa, per il fatto stesso di selezionare dei rappresentanti e dei governanti con il voto, ha nella sua natura un principio di delega all’élite e produce una specie di aristocrazia non del sangue ma del comando, insediando al vertice delle istituzioni professionisti del potere (che tendono a non lasciare la presa).
Non ci sarebbe dunque da stupirsi se le sorti della destra italiana finissero per identificarsi con una situazione dinastica, grazie al passaggio della leadership da Silvio Berlusconi alla sua primogenita Marina. È vero che di solito in questo campo le storie di maggiore successo e di più elevato rango non coincidono con l’ascesa al potere dei fondatori e dei loro figli, ma richiedono qualche più lunga coltivazione e una educazione adeguata al rango: i Kennedy arrivano alla Casa Bianca alla terza generazione dopo il bisnonno irlandese, i Roosevelt e i Bush, casi dinastici tra i più longevi, dopo tre secoli dall’approdo in America dei progenitori, rispettivamente olandese e tedesco. E tuttavia non è il caso di sottilizzare sui tempi.
E neppure sorprende più la trasmissione di un patrimonio intellettuale e professionale maturato nella politica, come nel caso dei fratelli Miliband, uno, David, già giovanissimo a Downing Street come consigliere di Blair e ministro degli Esteri, l’altro, Ed, attuale segretario del Labour Party. Sono figli di Ralph, ebreo belga diventato inglese combattendo nella Marina britannica e intellettuale di rilievo dello stesso partito dopo la guerra, noto per le sue posizioni marxiste, ispiratore della New Left e oggi difeso con orgoglio dai figli nei confronti di un tabloid che l’ha accusato di essere stato un nemico della patria. All’estrema destra, non è lontano da questo lo schema del passaggio da Jean-Marie a Marine Le Pen, un’altra “figlia d’arte”.
Anche il potente caso dinastico indiano è da considerare come possibile termine di confronto: Rahul Gandhi, figlio della presidente in carica del Partito del Congresso, probabilmente sfiderà l’anno prossimo per il governo il leader della destra Narendra Modi. Arduo paragone, ma è il caso che si preparino in tema dinastico, supporter e avversari, se Marina Berlusconi deciderà di far cadere il suo rifiuto alla candidatura, perché Rahul è figlio di Sonia e Rajiv Gandhi, nipote di Indira e bisnipote di Jawaharlal Nehru, il che significa tre generazioni di primi ministri e una madre leader politico della maggioranza. Lo stesso Rahul si presenta in pubblico parlando della sua posizione come un riassunto dei problemi di un paese che ha elezioni libere, ma rimane estremamente inegualitario. Il caso ha le sue controindicazioni in una prospettiva berlusconiana: la storia di quella famiglia incorpora il prestigio e il carisma immensi che derivano dalle personalità fondative della democrazia indiana e che gli assassini
di Indira e Rajiv hanno consacrato con il sangue.
Ma va detto infine che tutte queste gloriose discendenze non si portano appresso il piombo della eccezionalità della ipotesi che sta prendendo corpo con la possibile discesa in campo della presidente di Fininvest e Mondadori. In questo caso non avremmo solo il passaggio di padre in figlia di un ruolo politico attraverso la “maturazione” in famiglia di una competenza professionale (che è tutta da verificare: Marina si è fatta le ossa in azienda ma non c’è traccia di studi universitari); e non solo la continuità di un cognome da garantire aggirando la interdizione del padre dai pubblici uffici. Quello che accadrebbe di speciale, unico, sarebbe la imposizione dal-l’alto, per designazione dinastica, del transito in capo a Marina della perfetta anomalia italiana, quella di una rendita monopolistica e di un conflitto di interesse, che hanno condizionato clamorosamente la formazione dell’opinione e alterato il sistema di controlli antitrust con una legislazione di favore. Diventerebbe dinastica quel tipo singolare di “dominazione” che mantiene, tuttora, l’Italia fuori dagli standard europei e internazionali di libertà e di pluralismo.
Il beneficio di lungo corso dell’anomalia, che ha consentito la formazione di fondi neri con i quali è stata possibile la corruzione di deputati e giudici, è anche il peccato originale finito sotto giudizio, quello che ha portato il fondatore di Forza Italia in un vicolo cieco. Ora la successione infusa sopra la figlia come l’unzione di una cresima, da parte di un vecchio leader che non si vuole arrendere, dovrebbe magicamente rimettere la “dominazione” in condizioni di funzionare, di ravvivare la propria anomalia in Italia e in Europa, di prolungare la rendita e con essa l’immunità che l’accompagna: un congegno che si autoperpetua e che perpetua, come per un portento divino, il principio originario che si trasmette all’erede insieme al Dna.
Ecco perché c’è di che preoccuparsi. Le aspettative riposte in un passaggio simile a un miracolo producono generalmente pericolose delusioni e scatenano mostri. Si capiscono le esitazioni dell’erede designato. In tutti i casi di successione dinastica che abbiamo menzionato, il fardello è enorme, anche quando si tratta di far transitare sui figli il carisma indiscutibile di uomini e donne memorabili per le loro imprese al governo, come Indira o Nehru.
Ma il pensiero qui va piuttosto a due casi di transizione dinastica, uno riuscito e uno fallito. Il primo è quello di Thaksin Shinawatra, già tycoon monopolista dei media, che, condannato per corruzione, ha dovuto lasciare la Thailandia – se ritorna gli tocca il carcere – ed ha affidato il potere sul suo partito alla sorella, Yingluck, ora primo ministro. Il secondo è quello di Hosni Mubarak, il deposto presidente egiziano, che aveva meticolosamente preparato il terreno al figlio Gamal, come se fosse stato possibile infondergli la capacità, senza scossa alcuna, di perpetuare un regime fragilissimo che era giunto a fine corsa. Qui il percorso acrobatico dell’equilibrista sul filo si è trasformato in una caduta rovinosa che ha portato agli arresti dell’intera famiglia e al disastro l’intero paese. Il passaggio della “dominazione” all’erede, fuori dal contesto monarchico, resta pur sempre una scommessa ad altissimo rischio.

La Repubblica 31.10.13