attualità, politica italiana

“Il leader immaginario”, di Claudio Sardo

Ma davvero la sola alternativa al partito personale è il partito «impersonale», e dunque «senza qualità»? Davvero il partito, inteso come corpo sociale, è destinato a dissolversi nella modernità affidando ogni progetto politico alle leadership individuali e ai relativi comitati elettorali? Il congresso del Pd ha riacceso il confronto. Del resto, la dote maggiore che Renzi si attribuisce – e che tanti sono disposti a riconoscergli – è di essere «vincente» come la sinistra non è mai stata in questi vent’anni.

Tuttavia questa discussione – che torna come un fiume carsico nella crisi della Repubblica – appare sempre più povera, più subalterna, più lontana dai nodi reali del potere e dalle vere fratture sociali.
La leadership è parte essenziale della soggettività di un partito o di un movimento, oltre ad essere funzione irrinunciabile della rappresentanza. Negarlo è impossibile. Affermarlo però rischia di essere una banalità. Senza leader non ci sarebbe stata l’agorà, né il movimento operaio si sarebbe dato forme organizzate. Un leader efficace è da sempre un valore aggiunto. Nella società delle comunicazioni lo è ancor di più. Ma qualcuno crede che oggi per «vincere» basti trasformare la sinistra in un’agenzia demoscopica? Che basti l’affermazione di un nuovo carisma? Se la sinistra si riducesse a questo, avrebbe perso anche quando dovesse conquistare una maggioranza pro-tempore.
Vincere vuol dire rompere i fattori di blocco della mobilità sociale, vuol dire avviare un nuovo sviluppo nel segno dell’equità, vuol dire restituire funzionalità democratica alle istituzioni. Questa è il vero successo, che va oltre le elezioni. Ed è pensabile aprire una nuova strada, affidando tutta l’impresa a un capo che deve giocare la partita con pochi altri capi, in un territorio sempre più separato dai conflitti economici e dai drammi sociali? Il vero dilemma non è tra chi riconosce il valore del leader e chi invece rimpiange il «collettivo». Il vero dilemma non è tra partito solido e partito liquido. Il nodo da sciogliere riguarda l’efficacia della politica dopo la trentennale egemonia del liberismo antipolitico. Tutto ciò che conta oggi è estraniato dal circuito democratico: i margini di discrezionalità degli stessi governi sono minimi nei binari segnati da compatibilità precostituite. Come si può rompere questa gabbia, senza attivare una rete sociale, senza ricostruire un tessuto di solidarietà, senza l’autonomia dei corpi intermedi, senza un’offensiva culturale contro frammentazione e individualismo? In un recente articolo su la Repubblica, Giancarlo Bosetti è arrivato quasi a contrapporre il bisogno di leadership al bisogno di autonomia politica, come se i sostenitori di quest’ultima fossero nostalgici di una «collegialità» perduta nella prima Repubblica. Ma l’approccio è sbagliato. La leadership ha forza, dunque è davvero vincente, se presidia e interpreta l’autonomia politica e culturale di un partito o di un corpo sociale. Una leadership costretta a esibirsi solo in un «teatrino» separato – benché illuminato dai riflettori e monitorato dagli indici di consenso – sarebbe invece priva di efficacia. Il leader vincente sarebbe comunque ridotto a esecutore di volontà e di indirizzi altrui. I sempre più potenti mezzi di comunicazione sono lì ad amplificare, ma anche a proteggere i poteri esterni alla politica, i moderni Gattopardi, che qualcosa vogliono cambiare purché nulla cambi davvero.
La leadership è forte e vincente soltanto se è capace di dare dimensione sociale al cambiamento. In altre parole, se è capace di far compiere un salto al partito. L’idea che la leadership possa surrogarlo è velleitaria. Anzi, è già stata sconfitta. L’Italia del berlusconismo è stata il laboratorio dei partiti personali e patrimoniali: il risultato non poteva essere peggiore. Sarà pur vero, come scrive Mauro Calise nel suo saggio Fuorigioco (editrice Laterza), che la sinistra ha giocato male nel campo segnato dagli altri partiti personali, ma può riscattarsi adeguandosi semplicemente al modello perdente? Perché di questo si tratta: il partito personale che taglia le proprie radici sociali ha perso e ha portato male al Paese.
Non torneranno più i partiti di massa, né le strutture organizzate piramidali. Non si vinceranno le elezioni senza società di comunicazioni e senza squadre operative sul web e sui social. Tuttavia, non c’è una testa senza un corpo. E il corpo va tenuto vivo. Fabrizio Barca usa l’immagine del «partito palestra», dove la sperimentazione democratica è al tempo stesso fattore di partecipazione e di controllo. C’è bisogno di creatività. Di più: di innovazione rivoluzionaria. Ma senza un partito vero, senza persone, senza volontà comuni, senza radici sociali, senza autonomia, il leader è impotente. Anche quando i poteri esterni lo illuminano di consenso riflesso.

L’Unità 01.11.13