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“Da Craxi al Cavaliere, la Family al potere”, di Alberto Statera

«A’megghiu parola è chidda ca ‘un si dici». Altra tempra rispetto ai figli il capostipite della Family don Salvatore Ligresti che, chiuso per 112 giorni a San Vittore nell’estate 1992, spiegava al compagno di cella che gli preparava gli spaghetti il vecchio proverbio siculo imparato da giovane a Paternò, provincia di Catania. La figlia Giulia Maria, condannata in settembre a 2 anni e otto mesi per falso in bilancio e aggiotaggio, ha sopportato la cella per poco più di un mese, prima che in agosto la Family mettesse nei guai il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri.
CON la richiesta di intercedere per il trasferimento della signora ai domiciliari. Di ciò «ca ‘un si dici» don Salvatore aveva una gerla cospicua, tra le più fornite dell’epoca di Tangentopoli. Tanto che, ottenuta la liberazione dopo lo scandalo craxiano per l’appalto della Metropolitana milanese, fu arrestato di nuovo nel 1993 per l’affare Eni-Sai avendo distribuito mazzette per 17 miliardi di lire, gran parte dei quali destinati a Bettino Craxi, condannato poi in Cassazione a 5 anni e sei mesi nel 1996.
THE FAMILY
Giulia Maria, aspetto esile, sofferente di anoressia secondo quanto comunicato ai magistrati e al ministro Cancellieri, non ha proprio il carattere roccioso dei siculi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo per mezzo secolo a Milano: da Michelangelo Virgillito a Raffaele Ursini, da Michele Sindona al papà don Salvatore e a Enrico Cuccia. Ma l’eloquio rivelato dalle intercettazioni mostra un’indole battagliera, come quella della sorella cavallerizza Jonella. Meno nota alle cronache la cifra caratteriale del fratello Paolo, latitante da mesi. Fatto sta che, sfangata Mani pulite, non potendo più ricoprire cariche ufficiali per le condanne subite, don Salvatore divide i posti di comando del
gruppo tra la figliolanza. Ma continua a comandare lui e torna a comportarsi come un intoccabile. Enrico Cuccia, che lo coccolò per anni perché convincesse l’amico Craxi (anche lui vantava antenati siculi) alla privatizzazione di Mediobanca, non c’è più.
Ma l’Italia ha la memoria corta e il capitalismo di relazione, che molti ottimisti vogliono oggi verso la fine per consunzione, perdona facilmente gli impulsi delinquenziali dei suoi accoliti.
Soprattutto se sono quelli di don Salvatore soprannominato «Mister 5 per cento» perché fino agli ultimi eventi che hanno colpito la dinastia si trovava a controllare partecipazioni in Mediobanca, Pirelli, Gemina, Rcs, Generali. Il cuore del capitalismo familistico delle scatole cinesi e dei conflitti d’interesse. E in più era intimo di Berlusconi, fin dai tempi in cui Silvio era un palazzinaro arrembante che con lui partecipò all’acquisto della televisione Gbr, curato dall’attuale ex ministro berlusconiano Paolo Romani, da recare in dono all’amante di Craxi Anja Pieroni.
PROGENIE FAMELICA
L’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel è indagato perché avrebbe apposto una firma (dice solo «per visione») al “papello” recatogli da Jonella Ligresti con le condizioni per approvare il passaggio del gruppo Fonsai a Unipol. Richieste fantasmagoriche. Quarantacinque milioni per il 30 per cento di Premafin, emolumenti personali a Salvatore e alla progenie: 700 mila euro a testa per 5 anni, per un totale di 14 milioni; buonuscita per la carica a Jonella; buonuscita a Giulia, più consulenza in Compagnie Monegasque; buonuscita a Paolo fuggiasco.
Contratto «all’ing.», cioè don Salvatore, con Hines, la società del costruttore Manfredi Catella. Poi i benefit accessori: uso gratuito degli uffici di Milano, con segreterie, autisti, foresterie di Milano e Roma, auto attualmente utilizzate: Mercedes, Bmw e Audi. E per le vacanze? Uso gratuito degli appartamenti al Tanka Village, e uso della cascina di Milano.
Pare che nel “papello” non figurassero i jet Falcon sui quali le sorelle viaggiavano, ma non insieme neanche per lo stesso viaggio. Ma se un banchiere come Nagel avesse accettato queste condizioni, sarebbe da rinchiudere, pur non essendo certamente ignaro dell’avidità della figliolanza, che si è rivelata famelica non meno del capostipite e che per anni lo ha aiutato nel saccheggio a spese degli azionisti, con la complicità di banchieri, industriali, politici e autorità di controllo. Difficile dire quanto ha depredato la Famiglia dalle società controllate, come se prelevasse da un Bancomat. Per i cavalli di Jonella, per la sua laurea honoris causa all’Università di
Torino, sponsor il professor Sergio Bortolani, direttore della Scuola di Management ed Economia e nientemeno che consigliere della Banca d’Italia.
Giulia, che in prigione rifiutava di mangiare, faceva la stilista a spese della Fondiaria-Sai ed è la bella di papà, tanto che «Novella 2000», testata della Rizzoli di cui i Ligrestos erano azionisti, la ha impalmata reginetta di bellezza tra le top manager, sulla base del giudizio di una giuria di 20 banchieri e giornalisti economici (i nomi, please).
LA PROGENIE DELLA MINISTRA
Anna Maria Cancellieri è una donna simpatica e forse anche una brava funzionaria dello Stato. Ma non si può fare a meno di chiedersi: come può un prefetto diventato persino ministro intrattenere rapporti così intimi con un pregiudicato pluricondannato e con la sua famiglia? Dice di essere tanto amica della compagna di don Salvatore, che le ha chiesto l’intervento per Giulia. Ma l’ammissione è quantomeno riduttiva. Correva infatti il 1987, quando nella Milano craxiana “da bere” la giovane viceprefetto Anna Maria Peluso, che faceva le pierre in Prefettura, mostrava intimità con Antonino Ligresti, fratello di don Salvatore e proprietario di cliniche. Il giornalista Federico Bianchessi ha raccontato come la giovane signora fosse presente nella clinica Città di Milano a una sua intervista con il potente clinicaro. Ciò che fa ritenere forse successiva l’amicizia con la compagna di don Salvatore, Gabriella Fragni. La quale, peraltro, inconsapevole forse della gravità di quella telefonata partita dal ministero di Grazia e Giustizia subito dopo l’arresto della Family meno uno, insulta persino l’amica ministro. «Ieri ho avuto una telefonata che poi ti dirò», racconta alla figlia. «Gli ho detto: ma non ti vergogni di farti vedere adesso? Ma che tu sei lì perché ti ci ha messo questa persona ». Quale persona? La Ligresti Family in disarmo, sei mesi fa era ancora in grado di fare ministri, come ai tempi di Craxi e di Berlusconi? O l’aiuto ricevuto da Anna Maria è di altra natura? Certo, la carriera di Piergiorgio Peluso, figlio dell’ex viceprefetto Anna Maria Peluso diventata ministro, è folgorante e i suoi redditi da favola. Un bravo manager? No, «un idiota», secondo Giulia Maria, intercettata al telefono con un amico. Se Piergiorgio è davvero un idiota non si capisce la sua carriera fulminea se non con l’appartenenza al cerchio di potere della mamma, un cerchio dove conta soprattutto il «capitale relazionale» in una società ormai divisa in network di potere, dove la competenza è un surplus. Ma Giulia è una donna avvelenata e sull’affermazione secondo cui Piergiorgio in Fonsai « in un anno ha distrutto tutto» va necessariamente presa con le molle.
Quarantacinque anni, dopo la laurea alla Bocconi Piergiorgio lavorò
in Mediobanca, poi in Credit Suisse e in Capitalia ai tempi di Cesare Geronzi, dove trattava i rapporti con il gruppo Ligresti. E’ lì che approda nel 2011.
Indicato da Mediobanca o dai Ligresti stessi? Fatto sta che appena arrivato sulla tolda di direttore generale non può fare a meno di rilevare che la Fonsai ha gravi problemi di solvibilità.
Resta poco più di un anno e se ne va con una buonuscita di 3,6 milioni o di 5, secondo quanto dice al telefono Giulia Maria, calcolando forse anche 14 mesi di stipendio. Un bel gruzzolo che lo accompagna subito nella carica di direttore finanziario di Telecom.
OLIGARCHIE DI POTERE
Chi ha detto che oggi è difficile trovare lavoro? Forse sì per i comuni mortali, ma non per chi fa parte di una oligarchia che si è di fatto eletta in classe separata rispetto alla cosiddetta società civile. Don Totò ha avuto bisogno di tutti e tutti hanno avuto bisogno di lui: politici, imprenditori, prefetti, banchieri: chi può dire di non aver avuto da lui? A parte il noto clan ex fascista dei La Russa, il cui capostipite Antonino gli presentò Enrico Cuccia che poi lo favorì (ricambiato) per una vita, per avere un piccolo test basta scorrere il citofono del suo palazzo romano di via Tre Madonne, dove ha abitato o abita un plotone impareggiabile di potenti: dal vicepremier Angelino Alfano al presidente dei deputati berlusconiani Renato Brunetta; da Italo Bocchino, ex vice di Fini, all’amministratore delegato della Consap Mauro Masi, fino a Marco Cardia (figlio dell’ex presidente Consob) e a Chiara e Benedetta Geronzi. L’immobile è bello, ma non invidiamo gli inquilini. Sembra il palazzo di Devil’s advocate,
dove l’avvocato Milton-Al Pacino conduceva all’inferno i suoi adepti.

La Repubblica 02.11.13