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“Eppure la cultura ci può salvare”, di Gianni Riotta

L’Italia che emerge dai dati europei sui consumi culturali è come un’immagine composta al computer da milioni di pixel, mosaico che, spostando il fuoco, si sgrana e assume diverse fisionomie. Paese impoverito, potremmo dire a prima vista, che taglia su spettacoli e libri perché disoccupazione, cassa integrazione, precariato limano i redditi familiari. È di ieri la notizia che ha visto ridotti quasi della metà gli italiani in lizza per la Maratona di New York: crisi del podismo o risparmi?

Un Paese intimidito, che non studia musica perché preoccupato di quel che la crisi ci butta addosso, magari deciso a investire i risparmi in un corso che si ritiene più utile, «Informatica», «Inglese Commerciale», «Tecniche del Marketing» anziché violino, pianoforte, composizione. Un Paese affaticato, perché niente logora come la vita del disoccupato e del precario.

Da mattina a sera cercando un posto, un impiego, calcolando se i tre mesi di contratto a rischio rinnovo valgano la pena, o se sia meglio restare free lance e non perdere clienti. Incerti se cercarsi una raccomandazione detestata, tornare a studiare, o – per i senza lavoro over cinquanta – tornare con trepidazione a «guardarsi in giro», come si era fatto solo trenta anni indietro.

Stati d’animo che poco invogliano a mettersi in coda con i turisti agli Uffizi a Firenze, a meditare sul Cenacolo di Leonardo a Milano o l’Annunciata di Antonello a Palermo, ascoltare le Variazioni Golberg di Bach, un brano jazz di Tristano, l’ultimo spettacolo di Luca Ronconi. I numeri che Marco Zatterin analizza sono i pixel di un Paese depresso, distratto, indaffarato, frustrato, dove un’élite di rango o cultura continua a potersi permettere anche la «Cultura» ma la grande galassia di chi scivola nell’economia post industriale dal ceto medio al disagio taglia i consumi, nobili come La Scala, semplici come pizza e birra con gli amici.

I nostri luoghi comuni, il Paese con i tanti (troppi?) siti dell’Unesco, la patria del diritto, il Bel Paese dove il Sì suona, gli elzeviri del solito parruccone, svaniscono davanti a un censimento impietoso, dove conservatori, cinema, gallerie d’arte, restano deserti e ciascuno di noi si isola, detestando perfino la tv.

Ci sarà chi, e non a torto, rimprovererà la cultura italiana, specchio depresso di questa deprimente realtà, incapace di dare visione al resto della comunità, con romanzi insieme di eccellenza e popolari, come «I Promessi Sposi» o «Il barone rampante», film come il «Gattopardo» di Visconti, un cult che però ebbe record di incassi nel 1963-1964. Nei ricordi de «L’impronta dell’editore», Roberto Calasso ha ricordato con ironia come «Fuga senza fine» di Joseph Roth, aristocratico romanzo Adelphi della Mitteleuropa divenne nel 1977 lo struggente manifesto di una generazione ribelle: il corto circuito culturale, anima del jazz, produce simili scintille emotive.

Oggi troppo appare spento in Italia. La crisi induce risparmio, contrazione, taglio, la paura sociale genera rancore, astio, invidia, oppure frustrazione, solitudine, alienazione. Eppure è giusto in momenti come questi che la cultura salva. Il neorealismo italiano, con il suo De Sica capace di essere eroe per il capolavoro di Rossellini «Il generale Della Rovere» (anche qui tensione cultura-cronaca, l’idea era di Indro Montanelli) come per il bonario «Pane, amore e fantasia» di Comencini, la Loren tragica della «Ciociara», premiata con l’Oscar, e la Loren comica dello spogliarello davanti a Mastroianni al ritmo languido di «Abat Jour», facevano meditare e rasserenare. In America, negli anni terribili della Depressione, Steinbeck racconta l’esodo dei braccianti, il regista Capra conforta con i suoi film, commedie morali. Facendoci riflettere o sorridere, mai annoiandoci però, la cultura è indispensabile negli anni bui. Troppi nostri romanzi, troppi nostri film, troppa nostra tv, riflettono invece opachi la società perduta, che si lamenta, si isola, non vuol combattere né sperare e diserta.

Il populismo corrente addebita, a destra, centro e sinistra, questo vuoto alla «Kasta», un totem che ha finito, complice la nostra disastrosa classe politica degli ultimi 20 anni, per assolvere tutte le colpe parallele della leadership italiana, finanzieri e aziende, la Chiesa, la cultura e i media, la pubblica amministrazione, i sindacati. La mancanza di visione, la paura del futuro, lo sterile attaccarsi ai pochi, diffusi, privilegi, ci ha buttati nel pozzo in cui ci sentiamo infelici. Dall’oblò lontano vediamo poca luce e neppure un pezzetto di quella Luna meravigliosa che il piccolo minatore Ciaula di Pirandello, riesce a scorgere una notte uscendo dalla tomba di fatica dove vive.

L’Italia – ci dicono i centri studi – non cresce da 25 anni, una generazione. Qualcuno scrolla le spalle, invocando il miraggio della «decrescita felice», ossimoro grottesco. È questo deserto culturale, invece, il panorama maligno della decrescita. Non meno tempo sprecato al centro commerciale a comprare roba inutile trasformato in prezioso seminario a Ivrea, su Signorina Felicita e Gozzano. No, niente shopping, niente Gozzano, restare seduti da soli in tinello sul sofà con la tv o il computer che girano a vuoto e neppure guardiamo, aspettando in silenzio i guai di domani.

La Stampa 05.11.013