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“La riforma del Mibac” di Luca del Frà

Anticipiamo la relazione che verrà presentata oggi alla stampa: tra le novità suggerite dalla Commissione al ministro Bray ci sono la riduzione delle direzioni regionali con conseguente ridimensionamento dei compiti. Un capitolo dedicato anche a precari e sponsor. Sono ottantotto le pagine che la commissione per la riforma del Ministero per i beni culturali e per il turismo (l’impronunciabile Mibac) ha consegnato al ministro Massimo Bray: l’intero settore viene profondamente ridisegnato da una Relazione che tuttavia ha solo valore consultivo e oggi viene presentata alla stampa nella sede del Collegio Romano.
Per comprendere a fondo il documento occorre considerare che, tenendo fuori il turismo, il Mibac ha una struttura spesso definita abnorme, perché ubbidisce a logiche opposte: quella dello Stato, portata avanti dalle direzioni generali, e quella della riforma in senso federalista, che ha fatto esplodere il numero delle direzioni regionali, con la crescita esponenziale dei ruoli dirigenziali, ed effetti non sempre benefici.La Spending review impone a tutti i ministeri un taglio dei dirigenti: la Commissione suggerisce al Mibac di ridurre il numero delle direzioni regionali, accorpandole ma non precisandone il numero, e ridimensionandone anche il ruolo, puntando invece sulle direzioni generali, dunque sullo Stato, ma ridisegnandone profondamente le funzioni e riducendole.
Questo è un aspetto positivo che, qualora ben articolato all’atto pratico, potrebbe portare allo snellimento di molte incongrue sovrapposizioni, con le direzioni regionali che svolgerebbero un ruolo di semplice coordinamento, controllo amministrativo e raccordo con gli enti territoriali, ma sarebbero estromesse da quello tecnico scientifico –rilasciare permessi, fare tutela, e così via–, funzione che per la pressione degli interessi locali non sempre hanno svolto in maniera ineccepibile.
Sorprendete è invece come siano ridisegnate le direzioni generali: due, gemelle, si dovrebbero occupare una dell’innovazione, della digitalizzazione, dell’informatizzazione concessione ad argomenti cari al ministro -, l’altra del personale, con specifiche competenze sulla formazione. Una, va da sé, per il bilancio e l’amministrazione, con competenze specifiche in materia di bandi e appalti. Tre infine sono riservate alle funzioni proprie del ministero: una elefantiaca e detta al Patrimonio con competenze su tutti i beni culturali e del paesaggio (attualmente sono 2), la seconda, detta degli Istituti culturali, riservata alle biblioteche, gli archivi e i musei (sono 2 ma con i musei affidati ad altre direzioni), la terza allo spettacolo dal vivo e al cinema (oggi 2).
Scorporare i musei dalla direzione al Patrimonio potrebbe apparire contraddittorio, ma obbedisce a una logica che vuole renderli autonomi e con direzioni dotate di maggiori poteri decisionali nel nostro ordinamento i musei sono considerati poco più che uffici.
La relazione invita poi a creare una non meglio definita Unità di controllo, che dovrebbe vigilare sulla realizzazione delle direttive a tutti i livelli del Mibac sarebbe augurabile anche nei rapporti non sempre limpidissimi tra Mibac e privati. Meno chiara la Relazione sul Segretariato generale: potrebbe essere abolito, ma anche no. Qui la sovrapposizione è palese, o l’Unità di controllo o il segretariato Generale ma dopo vedremo perché.
La Commissione ha poi preso di petto alcuni nodi dolenti: primo fra tutti la presenza, in questi anni di blocco delle assunzioni pubbliche, di lavoratori atipici, con contratti professionali o a tempo determinato, che prestano servizio per il Mibac, cui si aggiungono quelli delle fin troppo numerose società «in house», vale a dire di cui il Mibac è proprietario e di cui si avvale per numerosi servizi e mansioni. Un modo evidente di eludere le regolari assunzioni per concorso, come sarebbe di legge nella pubblica amministrazione. La Commissione non fa mistero della singolare scarsità di dati messi a sua disposizione dal Mibac, raccomandando una ricognizione puntuale in un settore che, aggiungiamo, non di rado è caratterizzato da vaste praterie di nepotismi, raccomandazioni, funzionali a creare consenso.
Intriganti anche le pagine dedicate agli appalti e alle sponsorizzazioni: emerge una giungla legislativa forse volutamente confusa poiché da una parte permette al livello politico di operare in modo arbitrario, dall’altra incentiva i mille ricorsi ai tribunali amministrativi che, per usare le parole della relazione, «sono diventati una prassi» che costa cara alle casse dello Stato e alle tasche del contribuente. La commissione suggerisce la via francese, una forte deregolamentazione degli appalti, soprattutto se ad alto contenuto tecnico, cioè destinati al restauro, agli scavi o alla manutenzione, con una forte capacità decisionale del museo o della soprintendenza appaltante.
La Relazione contiene molti aspetti positivi, ricordiamo anche la creazione di una Scuola Nazionale del Patrimonio, e il ministro Bray ha molto materiale su cui meditare, tuttavia alcuni aspetti non appaiono del tutto lineari. La Commissione non mette in discussione la «Spending review», quando la sua applicazione al Mibac è stata piuttosto crudele a causa dell’allora ministro Ornaghi, senza considerare i precedenti tagli operati in epoca Bondi. Tra le due impostazioni del Ministero, regionale o statale, occorreva forse una scelta più univoca, invece si è optato per quella statale, mantenendo però le direzioni regionali invece di trasformarle in uffici. È il segno di una mediazione, una vocazione al compromesso che ritroviamo anche nell’incerto giudizio sulla sorte del Segretariato generale, e la creazione del suo doppio, l’Unità di controllo. Non sfugge come le direzioni generali oggi 8 di cui 6 a carattere tecnico scientifico, passino a 6 di cui solo 3 a carattere tecnico scientifico: non si rischia di trasformare un Ministero di competenze in un ministero di burocratico? L’autonomizzazione dei musei, in sé auspicabile, li scorpora dalle soprintendenze territoriali: un modello che il mondo ci invidia, nato dalla peculiarità italiana di avere nei luoghi espositivi materiale proveniente dal territorio. L’adozione di modelli museali stranieri dovrebbe partire da un profondo e creativo adattamento al nostro di modello, non da emulazione.

L’Unità 05.11.13